Parafrasi canto 24 (XXIV) del Purgatorio di Dante

Parafrasi del Canto XXIV del Purgatorio – Forese anticipa a Dante che sua sorella Piccarda Donati si trova tra i beati del Paradiso. Il sommo poeta incontra poi Bonagiunta da Lucca che prima fa una profezia su di lui, poi ne esalta l’invenzione del dolce stil novo. Infine Forese predice a Dante la discesa nell’Inferno del nemico Ghibellino Corso Donati.

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Dante si trova nella VI cornice, dei golosi, in compagnia di Virgilio, del poeta latino Stazio, che ha terminato la fase di purificazione dell’anima nella V cornice del Purgatorio, degli avari e dei prodighi, ed è quindi pronto a salire in Paradiso, e di Forese Donati, poeta fiorentino fratello di Corso e di Piccarda.

Dante chiede a Forese dove si trova la sorella Piccarda e di indicargli le anime più degne di note. La magrezza degli spiriti, causata dal continuo desiderio insoddisfatto di mangiare i frutti di un albero a forma di cono rovesciato e di bere l’acqua limpida che lo bagna, li sfigura infatti a tal punto da renderli irriconoscibili agli occhi del poeta.
Forese risponde che la sorella si gode la beatitudine del Paradiso (e Dante la incontrerà anche) ed indica poi tra i vari personaggi, per lo più nobili ed ecclesiastici (il vizio della gola doveva essere molto radicato nelle classi agiate), il rimatore Bonagiunta da Lucca ed il papa Martino IV, che subisce con maggiore violenza l’espiazione del peccato per aver ricoperto una alta carica ecclesiastica. Dante vuole parlare con il primo dei due, vedendolo desideroso di dargli notizie e leggendogli sulle labbra un nome sconosciuto “Gentuccia”.
Bonangiunta profetizza in breve il futuro esilio di Dante, dicendo che è ancora una adolescente la donna (Gentuccia) che gli farà cambiare opinione sulla città di Lucca, nella quale verrà ospitato, per poi cambiare velocemente argomento e chiedere se lui è proprio il poeta inventore del dolce stil novo.

Il dialogo è quindi l’occasione per Dante per riconoscere e consegnare ai posteri la gradezza della sua poesia giovanile, ed anche per sottolineare il valore mistico-religioso del dolce stil novo, che raggiunge il suo culmine nella poesia d’amore divino: poesia d’amore per una donna angelo che è tramite verso Dio.

Terminato il dialogo con Bonagiunta, tutte le anime si allontanano, ad eccezione di Forese che chiede a Dante, in segno di profonda amicizia, quando potrà rivederlo. Il poeta risponde di non sapere quanto gli resta ancora da vivere ed aggiunge poi, con amarezza, di non vedere l’ora di ritornare nel Purgatorio, tanto è la malvagità che regna a Firenze. Forese, forse per confortare l’amico, profetizza a Dante la morte e la successiva caduta nell’Inferno di colui che più di tutti ha arrecato danni alla città; si tratta del fratello Corso Donati.
I due amici infine si salutano e Dante, Virgilio e Stazio riprendono il loro viaggio.

Dante vede un nuovo albero da frutta a forma di cono rovesciato (i cui frutti sono quindi irraggiungibili) ed una nuova schiera di anime, che tendono in alto le mani da sotto e pregano inutilmente per poter riuscire ad afferrare il tanto desiderato cibo.
Non appena le anime si sono allontanate ed i tre poeti si avvicinano all’albero, dalle fronde esce una voce che li ammonisce di girare al largo, comunicando loro (ai quali i frutti non possono essere negati) che quella pianta deriva dall’albero del Paradiso terrestre e facendo loro diversi esempi di vizi di gola puniti tragicamente.

I tre poeti proseguono il loro cammino lungo il versante della cornice, meditano in silenzio sulle parole appena ascoltante.
Il profondo silenzio viene poi improvvisamente rotto dalla voce dell’Angelo della temperanza, che indica ai poeti la strada per salire alla successiva ed ultima cornice. L’Angelo è talmente luminoso che Dante non riesce a sopportarne la vista e deve procedere voltato indietro verso Virgilio. Sente comunque le ali della creatura celeste che sbattono, liberando profumo di ambrosia (il pagano nettare degli dei) e facendo sentire a Dante una brezza primaverile sulla fronte: è la sesta ‘P’ che viene cancellata dalla fronte del poeta.


Né il parlare rallentava l’andatura, né il camminare rallentava
il discorso, ma, continuando a parlare, camminavamo in fretta
come una nave sospinta da un buon vento;

e le anime, che sembravano essere morte una seconda volta,
dalle loro orbite infossate si meravigliavano
della mia persona, essendosi accorte che ero ancora in vita.

Ed io, continuando il mio discorso con Forese Donati, dissi:
“L’anima di Stazio sale verso il Paradiso forse più lentamente
di quello che dovrebbe essere, a causa di altri, di Virgilio.

Ma dimmi, se lo sai, dove si trova tua sorella Piccarda;
dimmi anche se posso incontrare qualcuno degno di nota
in questo gruppo di anime che mi fissano così tanto.”

“Mia sorella, che non so se fosse più bella
o più buona, trionfa ormai beata
della sua gloria nell’alto Cielo.”

Così disse inizialmente e poi aggiunse: “In questa cornice è
necessario nominare ogni anima, essendo così consumato
il nostro aspetto a causa del lungo digiuno.

Questa anima”, e indicò uno con il dito, “è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quello poco più lontano
che ha il viso più squamato degli altri

ebbe tra le sue braccia, in sposa, la Santa Chiesa (fu Papa):
fu ‘da Tours’, e sconta con il digiuno l’aver mangiato
troppe anguille di Bolsena e bevuto troppa vernaccia.”

Molte altre anime mi nominò una ad una;
e tutti sembravano contenti di venire nominati,
tanto che non vidi nessun gesto di disappunto.

Vidi fare andare i denti, masticare a vuoto per la tanta fame
Ubaldino degli Ubaldini e Bonifacio Fieschi,
che fu in vita vescovo di una diocesi molto numerosa.

Vidi Marchese degli Argugliosi, che ebbe occasione di bere
a Forlì con meno sete di quella che aveva in Purgatorio,
e fu tanto ingordo da non sentirsi mai sazio.

Ma come fa chi guarda più persone e poi si compiace
più d’una che di un’altra, così feci il con Bonagiunta da Lucca,
che più degli altri sembra essere volermi parlare.

Mormorava sotto voce; ed un certo nome ‘Gentuccia’
distinguevo sulla sua bocca, là dove egli sentiva più il
tormento della giustizia divina che li consuma nel digiuno.

“Oh anima”, dissi io a lui, “che sembri così desiderosa
di parlare con me, fa in modo che ti capisca,
e soddisfa entrambi, me e te, con le tue parole.”

“È già nata una donna, ma non indossa ancora il copricapo
nuziale”, cominciò a dire l’anima, “che farà in modo che a te
piaccia la mia città, per quanto se ne parli male.

Te ne andrai di qui con questa profezia: se le parole
da me mormorate ti hanno fatto nascere dei dubbi,
saranno poi i fatti a scioglierteli.

Ma adesso dimmi se vedo qui di fronte a me colui che
inventò un nuovo modo di fare poesia, scrivendo la canzone
‘Donne che avete intelletto d’amore’.”

Gli risposi: “Io sono un poeta che, quando
l’Amore lo ispira, scrive, ed esprime esattamente
ciò che gli viene dettato dal cuore.”

“Oh fratello, adesso riesco a vedere bene”, mi disse,
“l’ostacolo che trattenne il notaio Iacopo da Lentini, Guidone
d’Arezzo e me lontano dal dolce stile nuovo che sento da te!

Vedo bene adesso come le vostre penne
riescano a seguire da vicino l’Amore, che vi detta i versi,
come certamente non riuscirono a fare le nostre;

e chi dovesse indagare oltre, non vedrebbe
nessuna altra differenza tra l’una e l’altra penna”;
e, come se fosse soddisfatto, tacque.

Come le Gru, che passano l’inverno lungo il fiume Nilo,
qualche volta formano delle schiere in cielo,
per poi volare più velocemente e formare una sola fila,

così tutte le anime che si trovavano in quella cornice,
rivolgendo lo sguardo altrove, affettarono i loro passi, leggere
e veloci sia per la magrezza che per la volontà di andare.

E come un uomo stanco di correre
lascia andare avanti i compagni e cammina poi lentamente,
finché non diminuisce l’affanno del petto,

così Forese lasciò andare avanti la folla di anime devote,
e procedette in mia compagnia,
dicendo: “Quando potrò rivederti?”

Gli risposi: “Non so per quanto rimarrò ancora in vita;
ma non sarà mai il mio ritorno al Purgatorio così veloce
quanto vorrei che lo fosse;

perché il luogo in cui nacqui, in cui fui posto a vivere,
continua a perdere giorno dopo giorno i suoi buoni valori,
e sembra oramai destinato ad una tragica fine.”

“Va adesso”, disse Forese; “perché l’uomo che è più colpevole
per la condizione di Firenze (Corso Donati), lo vedo trascinato
da una animale verso quella valle in cui non si ottiene il perdono per i propri peccati.

L’animale accelera la propria corsa ad ogni passo,
in un continuo crescendo, finché non gli dà il colpo finale,
lasciando orribilmente sfigurato il corpo dell’uomo.

Non passeranno molti anni”,
e disse drizzando gli occhi al cielo, “prima che ti sarà chiaro
ciò che le mie parole non possono chiarirti oltre.

Ma adesso accetta di restare indietro; perché il tempo è
importante in questo regno, ed io ne sto perdendo troppo
procedendo al tuo passo.”

Come talvolta esce da solo al galoppo un cavaliere
da una schiera di cavalieri lanciati contro il nemico,
e va veloce per poter avere l’onore del primo scontro,

allo stesso modo Forese si allontanò da noi allungando il
passo; ed io restai in cammino solo con i due (Virgilio e
Stazio) che furono in vita così grandi maestri per il mondo.

E quando Forese si fu allontanato da noi a tal punto
che i miei occhi poterono seguirlo a fatica, allo stesso modo
in cui la mia mente seguì le sue parole profetico,

mi apparvero i rami carichi di frutti e di verdi foglie
di un altro albero, non molto lontano da noi,
essendomi solo in quel momento voltato in quella direzione.

Vidi delle anime alzare le proprie mani da sotto ai rami,
e gridare qualcosa verso i rami stessi,
come bambini pieni di desiderio che pregano inutilmente

perché colui che pregano non risponde loro, ma, anzi,
per fare in modo che il loro desiderio cresca ulteriormente,
tiene ben in alto sopra loro l’oggetto del desiderio.

Poi quella folla si allontanò, come se avesse capito l’inutilità
del gesto; noi raggiungemmo subito il grande albero,
sordo verso così tanti pianti e tante preghiere.

“Passate oltre senza avvicinarvi: più in alto
si trova l’albero che produsse il frutto morso da Eva,
questa stessa pianta è nata da quell’albero.”

Fu detto così da una voce sconosciuta proveniente dai rami;
per cui Virgilio, Stanzio ed io, stando vicini,
procedemmo oltre lungo il pendio della cornice.

Diceva ancora quella voce: “Ricordatevi di quei maledetti
nati da una nuvola, i Centauri, che, sazi ed ubriachi,
combatterono contro Teseo con i loro corpi per metà di uomini e metà di animali;

ed anche degli Ebrei che si mostrarono troppo incontrollati nel
bere e furono pertanto rifiutati come compagni da Gedeone,
quando discese dai monti per combattere contro i Madianiti.”

Rasentando uno dei bordi della cornice
passammo così oltre, ascoltando esempi di peccati di gola
a cui fecero seguito ben miseri guadagni.

Poi, di nuovo distanziati tra noi grazie alla strada deserta,
procedemmo oltre per più di mille passi,
ciascuno meditando tra sé senza pronunciare parola.

“A cosa pensate così camminando, voi tre soli?”
chiese improvvisamente una voce; fui perciò scosso dai miei
pensieri come fanno gli animali spaventati da un rumore che li ha colti nel sonno.

Alzai subito la testa per cercare di vedere chi avesse parlato;
e non si videro mai in una fornace
dei vetri o dei metalli tanto lucenti e rossi

quanto lo era l’angelo che vidi allora, che disse: “Se volete
salire il pendio, dovete voltare qui; passa da qui infatti
chi vuole raggiungere la pace del Paradiso.”

Il suo aspetto splendente mi rendeva faticosa la sua vista; mi
volsi pertanto indietro verso i due maestri, come chi procede
affidandosi soltanto alle indicazioni verbali che riceve.

E come, annunciando l’alba,
l’aria di Maggio soffia e dona profumo,
tutta impregnata dall’odore di erbe e di fiori;

cos’ì sentii allora una brezza piacevole sulla mia fronte,
mentre percepivo il movimento delle penne dell’angelo,
che odoravano di ambrosia.

E sentii dire dall’angelo: “Beati coloro che sono tanto illuminati
dalla Grazia, che l’istinto della gola non riesce
a suscitare in loro il fumo di una desiderio senza controllo,

ed hanno invece sempre fame di ciò che è giusto!”

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