L’ULTIMO BERSAGLIO di Giulio Galli

Quanto era stufo di raccontare sempre la stessa storia e di non poterla divulgare in Internet, una volta per tutte: “Due anni fa ho partecipato a un reality alle Bahamas, in cui i concorrenti venivano uccisi, uno ogni giorno, da un killer, sotto l’occhio delle microcamere di un programma TV via cavo, criptato. L’intero reality era stato concepito dall’assassino. Io sono l’unico superstite. Mi sono basato su quest’esperienza per elaborare, al Centro Realtà Virtuale in cui lavoro, un videogioco avveniristico. Al personaggio che mi impersona sullo schermo ho dato il nome di Giovanni. Pensavo fosse finita lì, credevo che il killer presto sarebbe stato arrestato, invece… mi ha mandato un sms tre settimane fa, avvisandomi che aveva messo a punto una nuova diavoleria e che io ne avrei fatto parte. Questa volta non ci sarebbero stati sopravvissuti”.

IL QUADRO MAI DIPINTO di Massimo Bisotti

Dovrà capitare prima o poi che due anime selvatiche, che non vogliono sentirsi strette da nessuno né chiuse agli angoli del mondo e che si amano abbastanza da non scappare né inseguire, si fermino a comprendere che completarsi è questo.
È chiudersi all’aperto sapendo che a nessuno dall’esterno sarà permesso entrare dentro.
Si può rischiare di restare insieme tutta la vita così, senza che sia una minaccia ma solo un sublime stato di grazia e di strafottente e imbarazzante felicità…

IL CAPPELLO DEL MARESCIALLO di Marco Ghizzoni

Il becchino comunale Luigi « Bigio » Bertoletti non poteva credere ai suoi occhi: dopo aver messo sotto terra metà dei suoi amici di infanzia – e sì che aveva passato di poco le sessanta primavere – quella mattina di un lunedì di autunno incipiente si trovò davanti il cadavere del liutaio Antonio Arcari, sdraiato sul tavolo dell’agenzia di pompe funebri di suo cognato.
Avrebbe voluto esultare, ma si contenne e si fece un caffè.
Era lì per ricevere alcune indicazioni in merito alla sepoltura e per dare una mano all’anaffettivo parente che sarebbe potuto arrivare da un momento all’altro. Meglio darsi un contegno, poi, una volta solo, avrebbe potuto urlare a perdifiato.

LA FABBRICA DEL PANICO di Stefano Valenti

La quinta elementare non è uno strumento adeguato per comprendere il mondo, soprattutto a diciannove anni, quando il mondo si presenta in forma di fabbrica.
L’angoscia che ha contraddistinto la vita di mio padre e l’ha condizionata, senza incontrare ostacoli sulla sua vita, né parole, né occasioni per essere contenuta, è traboccata, ha allagato la sua anima, si è radicata nella sua mente, ha distrutto il suo corpo. Era n’angoscia incontenibile, che gonfiava il petto, avanzando spavalda a gambe divaricate.
La fabbrica è una condanna senza reato. Esiste un prima e un poi per chi è condannato alla fabbrica, un prima della fabbrica e un poi nella fabbrica. E da quel poi, una vita normale diventa una vita invivibile.

CON LA LUCE DEL SOLE NEGLI OCCHI di Giovanni Giacometti Ceroni

“Dai fisicità alle emozioni, in modo da poterle manipolare. Gli esseri umani, soprattutto maschi, sono più a loro agio con ciò che possono manipolare. Associa le emozioni ad oggetti comuni. Agire sull’oggetto equivale ad agire sulle emozioni.”
E’ un concetto che Hal trova interessante, anche se non ricorda precisamente dove lo ha letto o da chi lo ha sentito. Forse in un trattato di psicologia. O è stato il suo istruttore di yoga di qualche anno prima a dirlo? Oppure, più semplicemente, era la frase del giorno scritta sul retro della scatola dei cereali.
Non importa. Ciò che importa è che Hal lo ha trovato l’oggetto con cui dare fisicità alle sue emozioni: il cubo di Rubik.

IL REALITY DELLA PAURA di Giulio Galli

C’era anche un aspetto vagamente preoccupante: erano finiti su un’isola davvero fuori dal mondo: salendo sul promontori, avevano potuto valutarne l’intera estensione, che non superava i dieci chilometri quadrati. C’erano pochissimi sentieri e all’apparenza nessun altro essere umano. A meno che non fosse nascosto nella vegetazione…

LE IMMAGINI RUBATE di Manuela Costantini

Il corpo di una donna è poggiato in un angolo. La morta ha gli occhi spalancati, un’espressione di terrore sul viso. Il cappotto è aperto, il vestito dalla fantasia floreale è un quadro astratto dipinto di un rosso scuro e s’intravede il cranio che spica rispetto al resto, in mezzo a tutto quel rosso.

Ciccone spera che l’abbiano ridotta così solo dopo averla uccisa.

Impiega un po’ di tempo prima di decidersi ad entrare. La Scientifica è sul posto; la Procura, con ogni probabilità, è stata già avvisata. Lui non vuole mettersi fretta. Anche perché continua a ricacciare in gola la saliva, ha mangiato poco e gli viene da rimettere.

Nessuna rapina, la borsa della donna è vicino al corpo, ogni cosa sembra essere al suo posto. Nessun abuso, la donna è completamente vestita e non ci sono segni riconducibili a una violenza sessuale.

Intervista a Astrid Mazzola, autrice di Quando intrecciavamo fiori

La scrittrice che vi presentiamo oggi è Astrid Mazzola, autrice del romanzo Quando intrecciavamo fiori. Prima di dare spazio all’intervista, lasciamo che sia lo scrittrice stessa a presentarsi attraverso la breve introduzione pubblicata sul suo sito web personale www.senzaombrello.it Credo nel potere di cambiamento nascosto nei sogni, e che un mondo pieno di sogni realizzati sia migliore. Che…

LE OSSA DELLA PRINCIPESSA di Alessia Gazzola

Ambra Negri Della Valle è sparita.
No, non è un sogno. È successo veramente e sono in preda ai rimorsi, perché ho desiderato una quantità infinita di volte che accadesse – come in quel film degli anni Ottanta con David Bowie, in cui una ragazzina sognava che gli gnomi portassero via il fratellino piagnone di cui era gelosa e poi il principe degli gnomi lo rapiva davvero. Ambra è la collega carogna per antonomasia, quella che per mettersi in mostra venderebbe sua madre, quella che fa dei meriti altrui uno specchio dei propri. È quella cui le cose vanno sempre dritte, la prima della classe, il capo delle cheerleader.
Non è una che sparisce, semmai è una che fa sparire gli altri.

QUANDO INTRECCIAVAMO FIORI di Astrid Mazzola

All’improvviso Francesco ha rotto il silenzio: “Oh, Irene, quando fu che imparammo a intrecciare fiori? Tu te lo ricordi?”
Mi ha colta letteralmente alla sprovvista. Anche per questo modo poetico di dirlo, “quando imparammo a intrecciare fiori”, che sembra farci migliori di quanto siamo mai stati, ci rende roba da film. Già, quando fu? Quale fu la prima volta?
Superato il primo sbigottimento ho ammesso, stringendomi nelle spalle: “Orpo, Francesco, mi sa che non me lo ricordo. E’ importante?”
“Assai” ha risposto, toscanamente impeccabile, fissandomi con i suoi grandi occhi scuri ed attenti. “Stavo pensando che fu un po’ l’inizio di tutto, secondo me. Che se siamo qui adesso, e con tutti questi progetti in testa, c’entrano anche quei benedetti fiori.”

E così ho cominciato a ricordare, e ricordare è difficile e faticoso per ognuno di noi, adesso più che mai.