LE CITTA’ INVISIBILI di Italo Calvino | Analisi e commento

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Commento e analisi:
Uno strumento conoscitivo. Per Calvino tuttavia la letteratura combinatoria non è mai puro esercizio formale, ma è uno strumento per indagare più a fondo il mondo, partendo dalle infinite possibilità del linguaggio e dei processi matematici e informatici messi a disposizione della letteratura. Calvino è quindi animato da un intento conoscitivo e non perde mai di vista le finalità della narrativa: intrattenere, sorprendere, conoscere, far riflettere. A ciò si aggiungono le esigenze di razionalità e di arginare il caos, costanti di tutto l’impegno letterario dell’autore.

La strutturazione del testo. Le città invisibili sono strutturate seguendo un ordine simmetrico rigoroso. Il libro è diviso in 9 sezioni di 5 testi ciascuno, a eccezione della prima e dell’ultima sezione che contano 10 testi. Ogni sezione è introdotta e conclusa da un testo in corsivo che fa quindi da cornice. I testi introduttivi e conclusivi riportano lo scambio di opinioni tra Kublai Kan e Marco Polo: il primo è l’imperatore dei tartari che ha affidato a Marco il compito di perlustrare l’intero suo impero e riportare all’imperatore notizie riguardanti le condizioni in cui versa. I testi delle sezioni sono in totale 55, che equivalgono alle città che Marco descrive. Non pago dell’organizzazione simmetrica del testo, Calvino suddivide il libro in 11 nuclei tematici, ognuno dei quali raggruppa 5 città. Altra caratteristica all’insegna dell’uniformità testuale è il nome che l’autore assegna a ciascuna città, che è rigorosamente un nome di donna.

L’uno e il molteplice: un gioco di specchi. Ogni città è in realtà inesistente, Marco non l’ha mai visitata, per cui l’intera descrizione è frutto della sua fervida immaginazione. Marco sembra giustificare la sua fantasia sostenendo in più punti del libro che ogni cosa rimanda a qualche altra cosa, e quindi ogni città rimanda a qualche altra città: si tratta di un gioco al rimando che può andare avanti all’infinito. Ma soprattutto ogni città rimanda alla città dove Marco ha trascorso la sua infanzia, Venezia: «ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia», ammette Marco. In questa ammissione risiede un ulteriore gioco di specchi: le infinite possibilità, il molteplice (le 55 città) nascono da un’origine unitaria (Venezia) e vi si specchiano. In questo specchiarsi risiede l’infinita possibilità della letteratura, in grado di raccontare un universo a partire da un dettaglio. Il macro e il micro si specchiano e si rimandano, generando di continuo nuovi mondi. Marco si guarda bene dal descrivere Venezia, che resta una città “invisibile” perché custodita nei ricordi del viaggiatore: tuttavia è una città esistente e quindi non può essere narrata, ma può fungere solo da matrice, “potenza” e base di partenza per narrare delle altre città. Le 55 città sono dunque un universo possibile e sono in una certa misura metafora dell’invenzione letteraria.

La visionarietà e la capacità affabulatoria. In questo quadro apparentemente freddo e geometrico, Calvino non rinuncia al fantastico. Le città invisibili sono infatti ambientate in un mondo lontano, il Medioevo, e sono affidate all’immaginazione fantasmagorica e alla visionarietà di Marco Polo. Marco è l’esploratore per antonomasia e nello stesso tempo il narratore di luoghi fantastici, per cui non poteva esistere personaggio più adatto al romanzo di Calvino. La base delle Città invisibili è perciò Il milione, il fantastico libro di viaggio dell’esploratore veneziano. Marco però è anche una nuova Sherazade, un genio del racconto in grado di tenere in pugno il suo ascoltatore: consapevole delle sue capacità affabulatorie, intrattiene Kublai Kan, che si accorge fin da subito dell’inverosimiglianza delle descrizioni di Marco, tuttavia rimane affascinato dai suoi racconti e lo esorta continuamente ad andare avanti con la narrazione.

L’utopia e il labirinto. Oltre al Milione, Calvino aveva ben in mente un’altra opera come base per le sue Città invisibili: Utopia di Thomas More. Il numero 55 è una spia di questa sotterranea relazione tra i due libri. Infatti le città narrate da Marco Polo nel libro di Calvino sono tante quante quelle descritte in Utopia da Thomas More. Il problema di un mondo felice e di un luogo in grado di accogliere l’uomo, senza che quest’ultimo lo renda invivibile, era già emerso nel Barone rampante, per restare sul filone fantastico-allegorico, ma era un tema caro anche al Calvino più realista e sociale, se si pensa a Marcovaldo e alla Nuvola di smog. L’utopia ancora una volta non è l’evasione nel fantastico, ma la capacità di immaginare un mondo migliore, nonché il desiderio di abitarlo. La conclusione delle Città invisibili è esemplare in tal senso e dimostra l’ancoraggio del libro nel presente: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio». Questa frase è naturale conseguenza di quanto Calvino scriveva nella Sfida al labirinto: le città invisibili allegorizzano il tentativo di guardare finalmente in faccia alla realtà con il proposito di trovare gli spazi da cui partire per costruirne una diversa. Queste città invisibili, immaginarie sono dunque la via di uscita dal labirinto.