Fa sempre uno strano effetto svegliarsi la mattina presto.
Presto nel senso di prima.
Prima dell’orario che si fissa sulla sveglia.
Si fissa un orario la sera, prima di mettersi a letto, con l’idea che quello sia l’orario giusto da cui partire, dal quale iniziare la giornata, per avere il tempo di fare tutte quelle cose che già sai di dover fare il giorno seguente.
Si fa un calcolo rapido e si decide che è quello l’orario giusto.
Poi succede che la mattina ti svegli un po’ prima di quell’orario e allora, in quel lasso di tempo, ti senti davvero libero.
In quel tempo avresti dovuto avere gli occhi chiusi e star dormendo.
E invece sei sveglio.
Ecco, in quel momento avverti per un attimo un sentore di indipendenza.
È un tempo che non hai preventivato, non hai già impegnato in qualcosa da fare. In quell’intervallo non previsto, puoi disporre di te come vuoi.
Oggi è successo proprio questo. Ho venti minuti di libertà.
Li ho rubati al sonno. L’ho ingannato, sono scappato fuori venti minuti prima di quanto gli avessi lasciato intendere ieri sera e mancano ancora venti minuti prima che mi debba infilare nel tubo chiuso e immutabile della mia quotidianità. Si, sono libero.
Quello che va fatto quando si è svincolati dalla tirannia della coppia dovere/tempo non deve comprendere alcuna delle attività che normalmente si fanno nel tubo. Questo lo so. Non è una legge, ma deve essere così per definizione. Altrimenti è solo un dilatare durate.
Non mi riaddormento, sono appena scappato dal buio. Non vado al bagno e non mi lavo, l’ingresso del tubo è ancora lontano.
Non faccio niente di ciò che è previsto io faccia dall’orario in cui avrei dovuto iniziare a funzionare.
In questo frangente capisco però che la verità è che, tolto tutto ciò che non devo fare, non so cosa voglio fare.
Questo sarebbe anche comprensibile. In fondo sono appena venti minuti ed è mattina presto.
Ma quel che è peggio è che non saprei cosa fare neanche se, invece di venti minuti, ne avessi trenta, cento, tutta la giornata o tutta la vita.
Sto in piedi, immobile, con la fronte appoggiata ad una mano, stampata sul vetro freddo del balcone.
Il tempo passa e io sto bruciando secondi, minuti della mia piccola franchigia di libertà, non facendo assolutamente niente.
Sto solo aspettando. Ecco cosa sto facendo: sto aspettando di mettermi sui binari di quel monotono tubo, di cui conosco ogni curva ed ogni singolo segno e anfratto sulle pareti, e iniziare a correre al suo interno. Binari che per definizione partono sempre dallo stesso posto e arrivano sempre alla stessa destinazione, disegnando esattamente lo stesso, identico, percorso.
Come ieri, come l’altro ieri, come faccio da sempre.
È una sensazione agghiacciante.
“Che fai, scendi?”.
È Piero al citofono. Sono le sette e trentacinque e sono già entrato nel tubo, ovviamente.
Certo che scendo, fesso di un Piero!
Ogni mattina mi fa la stessa domanda, alla stessa ora.
Come se davvero avessi la possibilità di dire “No, non scendo!”. E invece non ce l’ho, maledetto d’un Piero!
“Ciao”, mi fa quando mi vede.
“Ciao”, rispondo.
Ci avviamo a passo svelto verso la stazione.
Con Piero ci conosciamo da quasi dieci anni. È un bravo ragazzo.
Bravo ragazzo. Quando non sai come altro definire qualcuno, dici è “un bravo ragazzo”, un “brav’uomo”, una “brava donna”, “una brava persona”.
Lo si spaccia come un complimento, ma diciamoci la verità, è come se escludesse tutto il resto.
Non sei niente di più, solo “un bravo ragazzo”.
Come una sorsata d’acqua: non fa male, è innocua, neutra, non ha sfumature, insipida. Non provoca sensazioni che valgano la pena di esser provate.
Ecco, Piero è un bravo ragazzo. E, da un bel po’ di tempo, temo oramai di esserlo anch’io.
I soliti jeans acquistati su qualche bancarella, le scarpe da ginnastica bianche, la camicia taglio classico dentro i pantaloni e la sua borsa a tracolla con il notebook dentro.
Se ci penso, non credo di aver mai visto Piero senza che indossasse almeno tre di queste cose contemporaneamente.
L’abitudine, Piero, se la porta addosso.
“Allora, ce la facciamo oggi a finire quella routine? C’è il big boss che mi sta dando la morte. Vuole che collaudiamo entro il fine settimana”.
“Non lo so Piero. Ci proviamo.”.
“Come ci proviamo? Dobbiamo finirla entro stasera, altrimenti quello…”.
“Altrimenti quello che?”
“Niente ma… insomma, cerchiamo di finirla”.
Non ho voglia di parlare questa mattina. Non con Piero, almeno.
In realtà è da un po’ di tempo che con lui non parlo più.
Mi limito a rispondergli, ma parlare è un’altra cosa. Sembra bastargli, o probabilmente neanche si è accorto della differenza.
Lui è a pieno titolo una delle componenti principali e immancabili del mio percorso quotidiano lungo il tubo e, come tale, ha iniziato a darmi la nausea.
Non vorrei fosse così, un po’ me ne faccio una colpa.
È un amico, non mi ha mai fatto niente di male. Non ne sarebbe capace neanche se si mettesse in testa di farlo.
Certe persone non sono geneticamente predisposte a nuocere in alcun modo, lo vogliano o no. Piero è una di queste.
Ma ora la sua presenza mi procura fastidio. La sua voce fa rumore sopra i miei pensieri. Mi fa lo stesso effetto di una pietanza di cui sono già sazio, pieno, satollo, saturo, che cerca a forza di entrarmi nello stomaco. Appunto, mi provoca nausea.
Arriviamo cosi, senza parlare oltre, alla banchina che divide il binario tre dal binario quattro.
Lì ci attendono le solite facce, ognuna che viaggia già all’interno del proprio tubo. Stamattina mi sembrano più grigie del solito. Sarà per via del tempo. O forse è la mia mente che riceve le immagini captate dagli occhi e le interpreta alterandone la tonalità e deviandola verso il nero.
Ogni mattina assisto a questo scenario. Dovrei esserne assuefatto, eppure oggi mi sembra addirittura più desolante del solito.
Piero ne sembra immune.
Ma lui è immune a tutto. Si direbbe un portatore sano di tutti gli anticorpi alle sciagure del mondo. È un monolite inscalfibile dagli eventi, un elastico respingente, una forma intrisa d’olio, sulla quale tutto scivola senza lasciar traccia.
Almeno apparentemente.
Non so se sia una sua scelta, e quanto eventualmente sia consapevole, o sia naturalmente così. Credo viva ad uno strato diverso dal mio, con un livello di sensibilità che gli consente di avere delle soglie di tolleranza alle perturbazioni esterne molto più elevate.
È come se della vita si accontentasse di bere solo il succo, senza assaggiarne la polpa. Gli è sufficiente dissetarsi, soddisfacendo i propri bisogni primari, ma non ne assapora il gusto vero, dolce o aspro che sia.
Quel che è certo è che alle volte lo invidio.
Alle volte, non oggi. Oggi mi irrita e basta.
Lui, come tutto quello che mi sta intorno da un po’ di tempo a questa parte.
“Allora, cosa c’è che non va?”, mi chiede senza guardarmi, mentre è intento a far scorrere la zip della borsa per estrarne il computer.
Siamo seduti l’uno di fronte all’altro. Un miracolo, dato che di solito trovar posto a sedere la mattina è una vera impresa.
“Niente, va tutto bene. Ma che fai? Accendi il PC?”
“Ma come niente, hai una faccia…”.
Vorrei dirgli che non c’è niente che non va, perché tutto va verso il niente. Da anni. Il lavoro, i soliti amici, l’ex moglie che rompe, i rapporti con donne che entrano ed escono dalla tua vita lasciandoti la fugace sensazione di aver succhiato una caramella: dolce quel poco che dura. I viaggi in treno strizzati come acciughe in una scatoletta, la pizza il sabato sera, svegliarsi tardi la domenica mattina e attendere mestamente la tristezza della domenica sera. E poi le due settimane di ferie ad agosto, le feste di Natale, il capodanno e tutti gli altri scampoli che ci sono concessi e che esigono la nostra gioia. Una gioia effimera, come se il sollievo procurato da due ore d’aria in una prigione potesse sostituirsi alla sensazione di essere infine liberi.
Non c’è niente che non va.
Tutto scorre senza variazioni.
Stiamo invecchiando seguendo una linea che ci sembra diversa nel presente ma che invece non muta nei giorni, nelle settimane, nei mesi, negli anni, fino al suo estremo finale. Se potessimo disegnarla su un foglio e guardarla da lontano nelle sue curve, la vedremmo ripetersi periodicamente, identica a se stessa.
Questo vorrei dire a Piero.
Ma so già che più di uno sguardo sbalordito e una risata a chiudere non otterrei.
Lo conosco bene. Mi conosco bene…
In fondo è la mia coscienza, il mio alter ego che cerco di abbattere da dieci anni, senza riuscirci.
E allora ripeto, mi ripeto: “niente Piero, va tutto bene”.
Apro la mia borsa a tracolla, estraggo il mio notebook e lo appoggio sui miei jeans da bancarella.
Ho una routine da finire per stasera…
Racconto di Mario Menditto, concorso letterario 2013 Squarciare i silenzi