QUEL RARO SENSO DEL DOVERE di Alberto Robiati

Stamattina sono entrato in ufficio con una convinzione speciale. La chiarezza del mio futuro in azienda, segnata dal raggiungimento degli obiettivi di budget, dalla proattività nell’attuare progetti innovativi, dall’abilità di leadership espressa nel condurre gruppi di lavoro.

Ho visto me stesso promosso a incarichi di maggiore responsabilità, con ampi poteri decisionali. E conseguente, notevole, aumento di remunerazione. E relativo incremento del livello contrattuale. Risultati di eccellenza. E in soli dodici mesi!
Diciotto, se la contrazione economica durerà più del previsto.

Ho pensato: “Accidenti!”.

Tuttavia, non ho voluto modificare alcuna delle mie buone abitudini. Come ogni giorno ho timbrato il cartellino e salutato Paola che sta al centralino, che ha risposto al solito modo con un benevolo sorriso.
Poi ho raggiunto la mia scrivania al centro di quello che qui in azienda chiamiamo “l’acquario”. Un rettangolo di ufficio perimetrato da pannelli trasparenti di plexiglass con due porte su ognuno dei due lati corti. All’interno otto postazioni di lavoro.

Alle nove in punto mi sono seduto, ho acceso il pc e ho osservato immobile con gli occhi fissi sul monitor tutti i passaggi del caricamento del sistema operativo. Ho respirato profondamente, in silenzio, gustando ancora quella sensazione convinta.
Anche se, lo ammetto, è qualcosa che faccio spesso. Mi fermo da qualche parte, meglio se non ci sono colleghi nei paraggi, e mi concentro su un oggetto qualsiasi. Una bacheca per i dipendenti appesa al muro, la pulsantiera della fotocopiatrice, il portaombrelli in ferro nel corridoio d’ingresso. Uso questa strategia come carburante per rigenerare le energie e magari fare uno sprint sulla consegna di un progetto.

Ed eccomi qua. Sono le nove e venti e ho appena terminato di visionare l’agenda. Tra le diverse attività del giorno, decido di dare priorità all’elaborazione del rapporto semestrale. Mi dirigo verso l’archivio per recuperare i dossier mensili.
Sul tavolone laterale, che utilizziamo per appoggiarci la corrispondenza, vedo che sono arrivati i risultati dell’Analisi di qualità. Si tratta di un altro progetto, lo so, ma sono curioso di vedere come siamo andati.
Scarto la bustona giallastra che ha su scritto il nome del mio gruppo di lavoro, i “Celti”. Già, in azienda abbiamo l’abitudine di dare un nome ai team di progetti speciali rievocando le popolazioni europee di un tempo. L’anno scorso ho lavorato nei “Galli” per l’indagine sulle procedure di sicurezza. Grande esperienza.

Sfogliando le pagine dell’Analisi di qualità mi accorgo che quei risultati sono vitali per far procedere a dovere il lavoro dei “Celti”. Decido allora di posticipare il rapporto semestrale. Estraggo da sotto il tavolo una sedia e mi ci appoggio.

Alcune pagine dentro la busta sono rimaste parzialmente incollate tra loro. Provo a passarle tra i polpastrelli di indice e pollice per tentare di scollarle, ma non riesco. Mi guardo intorno e mi viene l’idea di usare il badge che porto pinzato al taschino della camicia. Lo sfilo dall’involucro di plastica trasparente e lo passo tra una pagina e l’altra. Lentamente, attento a non strapparle o stropicciarle. Le pagine si scollano man mano. Poso il badge sul tavolo e mi godo lo spettacolo di un lavoro ben riuscito.

Mi alzo per andare a sistemare le pagine con i risultati dell’Analisi di qualità sulla mensola dedicata ai “Celti”. Bene, è stata una scelta fortunata perché ho potuto riscontrare che la mensola è piena di materiali. Penso, ma allora avevo ragione lo scorso mese quando chiedevo di duplicare i nostri storage, gli scaffali dedicati al ricovero dei nostri dossier.
Eh, quella sì che è stata un’attenta osservazione delle criticità.

Bene, è proprio il caso che vada a parlare con Mirarchi dell’ufficio Acquisti di questa faccenda degli archivi.

Lascio la bustona giallastra e il plico con l’Analisi di qualità sulla scrivania lì a fianco. È la postazione di lavoro di Gisella Poddu, la giovane assunta a inizio anno come apprendista. Oggi è a una visita di routine per la gravidanza. È al quinto mese.

Torno alla mia scrivania per munirmi della lista di approvvigionamenti. La trovo facilmente, perché lascio sempre nel primo cassetto i documenti importanti di lavoro.

Mentre mi dirigo da Mirarchi, do una sbirciatina alla lista e scopro che abbiamo già raggiunto i limiti di spesa. Così penso sia meglio andare all’ufficio Contabilità e pregare loro di richiedere l’acquisto della mensola. Suppongo che la loro lista di approvvigionamenti abbia ancora margini di spesa. Non hanno particolari esigenze in quell’ufficio, eccetto ovviamente le dotazioni minime di cancelleria.

Camminando per il corridoio sorrido al pensiero che i neoarrivati in azienda avrebbero difficoltà a risolvere una situazione come quella che sto affrontando io. Mentre io viaggio sicuro. Conosco perfettamente la disposizione degli uffici, ho la mappa dell’azienda incisa nella testa. Potrei muovermi a occhi chiusi sui quattro piani di uffici operativi.

A rifletterci bene, devo dire che conosco poco i piani dirigenziali, quelli che vanno dal quinto al settimo. Per un attimo provo un senso di chiusura alla gola. Ma subito mi sciolgo, e sorrido al pensiero che tra qualche tempo avrò un ufficio lassù.

Giro l’angolo verso il corridoio dell’Amministrazione e di fianco alla fotocopiatrice scorgo la scatola di cartone che ho lasciato ieri sera. Ero di corsa per chiudere le ultime questioni rimaste. Avevo passato il pomeriggio a tentare di spiegare all’apprendista Gisella come funzionano i nostri macchinari. In effetti, ci ho speso più tempo del dovuto, ma mi è sembrato gentile darle una mano dal momento che si porta una creatura in grembo.

Alla fine però volevo sbrigarmi a timbrare l’uscita è ho lasciata alla fotocopiatrice la scatola di cartone delle risme di fogli con cui ho caricato la macchina.
E stamattina me l’ero dimenticata. Fortuna che non m’ha visto nessuno e posso occuparmene adesso risolvendo in un attimo la cosa.
Guardo la scatola vuota che sto portando al magazzino e mi sembra in ottimo stato. Penso, perché non tenerla da noi in caso di futura evenienza? Sotto la mia scrivania non darà alcun fastidio.
Sono queste piccole intuizioni quotidiane che fanno lavorare bene.

Tornando verso l’acquario scelgo però di non ripetere lo stesso percorso e allargo verso l’ufficio Recupero crediti. Imboccherò il nostro ufficio dall’entrata opposta alla solita, ma questo mi permetterà di sgranchirmi un po’. Sì, è una mia abitudine. Non sono solito fare molto movimento fuori dal lavoro, così ne approfitto in azienda, quando devo spostarmi da un ufficio all’altro. Prendo spesso il tragitto più lungo per raggiungere qualche collega. Un modo come un altro per tenersi in forma, no?

Dentro l’acquario, vedo la mia scrivania dalla prospettiva opposta a quella ordinaria. Da questo punto mi accorgo che la felce sul mio tavolo, che appare così rigogliosa quando sono davanti al monitor, vista da qui ha invece alcuni rami secchi.
Appoggio la scatola di fianco all’armadietto delle pratiche evase – la sistemerò più tardi, mi dico – e prendo le forbici da carta per tagliare i rami secchi. L’occhio mi cade sulla pila di pratiche evase e vedo che in cima c’è quella relativa a “Salvioli Alluminio” in cui dovevo ancora inserire un dato pervenuto ieri pomeriggio. Meglio occuparmene presto prima che qualcuno decida di trasferirla in archivio. La felce, dopotutto, può aspettare.

Abbranco in fretta la pratica “Salvioli Alluminio” e faccio per appoggiarla sulla mia scrivania, quando vedo a terra, vicino ai cavi del computer, il pennarello nero che usiamo in sala riunioni per la lavagna a fogli mobili. Qualcuno deve averlo portato e fatto cascare nell’acquario e poi sbadatamente deve essersene dimenticato. Se lo lascio lì, vicino alla mia postazione, potrebbero pensare che sia io l’artefice di questa inefficienza.

Decido di correre subito a sistemarlo in sala riunioni, visto che la scorsa settimana i manager lo cercavano come matti. Ma prima appoggio la lista degli approvvigionamenti e la pratica “Salvioli Alluminio” sulla cassettiera della scrivania di Lazzarotti. Dovrei informarlo, ma in questo momento non c’è, si vede che è in pausa. Glielo dirò più tardi.

Ripercorrendo il corridoio, su cui affaccia anche la stanzetta con la macchinetta del caffè, noto che sul pavimento in linoleum s’è versata qualche goccia di un liquido marroncino. Forse è una delle “bevande al sapore di cioccolato” o “al sapore di the” servite dalla macchinetta. La cosa in sé non mi darebbe alcuna preoccupazione non fosse che qualche collega, magari con i tacchi alti, potrebbe rischiare di scivolare. In bagno ho spesso visto uno spazzolone e alcuni stracci. Appoggio il pennarello nero sopra la macchinetta del caffè, in modo che non si noti troppo, e vado a prendere spazzolone e straccio per dare una pulita.

Davanti alla toilette, alcuni colleghi, tra cui il dirimpettaio di scrivania di Mirarchi dell’ufficio Acquisti, si sono lavati le mani e stanno andando in mensa.
Ed ecco che mi arriva improvvisa un’altra delle mie intuizioni! Posso anticipare a lui ciò che avevo da dire a Mirarchi così mi porto avanti sulla questione della mensola. Non faccio a tempo a salutarlo che Daniele Dolcetti, con cui organizziamo le uscite del dopo-lavoro, mi raggiunge da dietro e per scherzo mi da una “scoppoletta” sul collo invitandomi ad andare a pranzo con loro. Effettivamente è già l’una: adesso mi spiego quella sensazione di “buco allo stomaco”.

Dopo mangiato ho bisogno di uno dei miei momenti corroboranti per ripartire in quarta come stamattina. Vado alla macchinetta del caffè, dove vedo il pennarello nero, e digito “2″ sul display. Mi sento un po’ appesantito, due bicchierini di espresso non faranno alcun male. D’altra parte è dalle nove che scatto come un ossesso. Mi sovviene nuovamente la bella sensazione di concretezza e successo con cui sono entrato al lavoro.

Rientro di corsa nel mio ufficio, dentro l’acquario. Vedo che Lazzarotti è già tutto intento a scrivere con la faccia appiccicata allo schermo del pc. Avevo qualcosa da dirgli, ma in questo momento non ricordo di che cosa si tratta. Del resto ho altro a cui pensare. Il mio futuro in azienda seduto a una scrivania ai piani di sopra, quelli dal quinto al settimo.

Il mio computer è in stand by. Lo riavvio e osservo la schermata che si carica. Intanto con la coda dell’occhio noto la felce e mi ricordo dei rami secchi.
Eh, possiedo quella che credo venga chiamata “visione periferica”: la capacità di rivolgere lo sguardo a trecentosessanta gradi. Questo mi permette di accorgermi di ogni dettaglio. Poco fa guardavo il monitor, ma con un occhio ho inquadrato la pianta e il problema che si porta dietro. Ed eccomi pronto a risolvere un’altra criticità.

Decido di potare i rami con un taglierino che ho tra le mie cose nel secondo cassetto. Ogni cassetto ha un suo significato. Nel primo in alto i documenti di lavoro. In quello più in basso, tengo soltanto un ombrello di riserva, nel caso smarrissi, o meglio, nel caso mi sottraessero quello che mi porto sempre dietro, agganciato al soprabito.
Nel cassetto centrale, più grande degli altri, ci sono invece gli strumenti, per esempio le penne, le matite, le gomme per cancellare, il righello. Ho anche un compasso, che se pure può apparire strano può sempre tornare utile. E, naturalmente, c’è il taglierino.

Mentre sego via i primi rami secchi si staccano diverse foglie che finiscono sul pavimento tra i cavi del pc. Mi chino per cercare di raccoglierle tutte in un angolo e ho un deja vu. La vivida impressione di essermi già chinato in quel modo tra i cavi del mio computer per qualcosa di importante. Lì per lì, però, non riesco a mettere a fuoco. Probabile che sia stata una mia immaginazione, magari evocata con quelle tecniche di visualizzazione che ho appreso al corso di “Self Marketing”.

Come mi sento bene. Anche se sono stanco, perché ci sono moltissime cose da fare e situazioni importanti da fronteggiare. Però ho ancora una bella sensazione dentro che riesco a tenere accesa. Anche questa è una tecnica.

Guardo i colleghi che si affannano e si arrabattano di qua e di là. Io sono diverso perché focalizzo. Metto a fuoco, miro all’obiettivo. E poi concretizzo. Realizzo i miei sogni, curo il mio avvenire, mi aggiorno.

E cresco professionalmente grazie ai corsi in videopillole su Internet. Che invenzione.

Torno a sedermi alla scrivania. Rifletto sul lavoro da fare e mi rendo conto di essere un po’ sovraccarico. Decido di prendermi qualche minuto di pausa. Cammino per i corridoi e davanti agli ascensori posso guardare fuori dalle finestre. È l’unica porzione del piano che si affaccia verso l’esterno. Tutti gli uffici, infatti, sono illuminati con i neon. Si tratta di una scelta tutto sommato economica, perché le lampadine a risparmio energetico costano, mentre i neon durano quanto le altre ma fanno luce per tante persone insieme.

Fuori si è fatto buio. Do un’occhiata all’orologio che porto al polso, ma che non sono abituato a guardare. Lo metto perché è un regalo di mio zio. Da quando è partito per il Canada metto l’orologio per ricordo.
Sono le cinque e mezza del pomeriggio, tra circa mezzora devo timbrare l’uscita, è meglio che mi affretti a risistemare tutto per chiudere la giornata.
Torno alla scrivania assaporando la nostalgia dei tempi in cui giocavo a briscola con mio zio.

Faccio il giro lungo entrando nell’acquario dal lato opposto. Accidenti alla felce sulla mia scrivania che ha ancora quei rami secchi! Non è un bel vedere da qui. Decido di ruotarla in modo da nasconderla in parte dietro il monitor.

Prendo il cappotto appeso al muro avviando quello che ho battezzato come “il rituale d’uscita”. Si comincia con il badge: porto la mano al taschino della camicia per prenderlo, ma stavolta ho un sobbalzo: il badge non c’è! Guardo giù, appoggiando il mento sul petto, e in effetti confermo che niente è pinzato al taschino. In ansia ifilo comunque il cappotto, urto però il porta-documenti in plastica del mio collega Antonacci, che è oggi è stato fuori in permesso. Cascano alcuni fogli e un paio finiscono sotto il tavolo della corrispondenza. Abbassandomi per raccoglierli lo sguardo passa sul ripiano del tavolo, dove ritrovo il mio badge tra lettere e riviste. Sospiro. Lascio i fogli sul pavimento, impugno il badge tenendolo stretto e mi avvio nell’atrio alla timbratrice.

Uscendo dall’acquario incrocio con lo sguardo la mensola dei “Celti”. Sento di avere da fare per quel progetto ma non ricordo con esattezza che cosa. Nessun problema, me ne occuperò nei prossimi giorni. Di certo non prima di dedicarmi al rapporto semestrale, attività assolutamente prioritaria in questo periodo.

Attendo di timbrare il cartellino e ne approfitto per riflettere su quanto sia stata impegnativa questa giornata. I rumori in azienda si assottigliano col passare del tempo.

Mi perdo in questa contemplazione finché una porta che si chiude qui vicino mi ridesta. Guardo l’orologio appeso al muro: sono le diciotto, è ora.
Eseguo come si deve il passaggio del badge nella macchina. Certo che l’ho scampata stavolta! Posso ringraziare di aver avuto l’idea geniale di cercare il tesserino vicino alla corrispondenza.

Finalmente esco. Oltrepassando la porta principale dell’azienda penso ai colleghi che sono già usciti, perché hanno meno lavoro e meno ambizioni di me. E mi chiedo che cosa volesse dirmi Lazzarotti, che è tutto il giorno che mi cerca.

Racconto di Alberto Robiati, www.albertorobiati.wordpress.com