E LA MENTE VA di Andrea Vanni

Docente di italiano al Liceo Scientifico di Cagliari, il prof. Pino Sanna, non più giovane , corporatura minuta, vestito doppiopetto elegante, camicia bianca e cravatta, sembra una figura uscita da altri tempi. Conversando con me “Andrea” mi ha detto “io sono professore d’italiano e tu sapessi com’è difficile oggi esserlo fra ragazzi di quindici anni a cui non interessa nulla né dell’italiano, né della scuola in genere. Va a far capir loro che Dante è il più geniale scrittore di tutti i tempi, che la Divina Commedia il più grande trattato filosofico mai scritto! Non è più possibile insegnare!”. Mi ha parlato poi del Boccaccio, e poi ancora del Guicciardini. Una persona preparatissima e piacevolissima da ascoltare. Sono le dieci del mattino. Alle cinque del pomeriggio il Prof. Pino Sanna da Cagliari, maniaco depressivo piromane insospettabile, viene sorpreso da un infermiere, mentre cerca di appiccare il fuoco all’albero di Natale, con una sigaretta. È al suo terzo tentativo di incendio. Lo riportano al “chiuso”, il reparto dei degenti più gravi.
È accaduto ieri: lo rivivo in sogno e sobbalzo nel letto.
Mi risveglio, anche stamani, con quel mattone che da un paio di mesi mi schiaccia stomaco e volontà di agire. La mente è vuota, il pensiero confuso.
Il letto non è accogliente, le lenzuola ruvide. Non so perché non ci siano né Gabriella, né Romeo, moglie e gatto, ma non ricordo esattamente se esistano. Leggo nella penombra della camera la scritta sul lenzuolo: “Azienda Ospedaliera” U.O. di PSICHIATRIA 2. Sono qui da una settimana. Nel corso dei giorni precedenti, piano piano ero arrivato a non mangiare più. La notte alle due, dopo un primo sonno, frutto della stanchezza e di un sonnifero, smettevo di dormire e ad occhi spalancati aspettavo il mattino, in preda alle mie fobie. Il giorno, torturato dall’ ansia, un peso costante sullo stomaco, mi dava un senso di ripieno e un dolore uggioso, che mi spingeva a fare, in ogni istante, qualcosa di diverso dal minuto precedente. Ero convinto che non avrei più potuto lavorare, che non sarei più stato capace di sostenere economicamente la famiglia. Era ormai un pensiero fisso, che non mi abbandonava mai, e la cui unica soluzione era farla finita. Nel tragitto da Livorno, nonostante i tentativi di Gabriella di farmi parlare, non dico una parola. Tutto è ovattato nella mia testa, i rumori esterni mi arrivano filtrati dei toni più acuti, e guardando fuori dal finestrino, vedo scorrere, davanti ai miei occhi, un paesaggio monotono, un cortometraggio senza parole. E sono solo, profondamente solo, in una sala di un cinema senza pubblico.
Finalmente arriviamo agli ambulatori della clinica psichiatrica.
La saletta di attesa è gremita: giovani, anziani, donne, uomini. Chi parla di continuo, chi di continuo tace, chi cammina su e giù nel corridoio, chi rimane immobile sulla sedia. Tutti aspettano il loro turno, la chiamata dell’ infermiera per chi deve fare una flebo, la chiamata di un dottore per chi deve fare una visita. Intorno al gabbiotto dell’accettazione c’è una confusione incredibile. Chi vanta un appuntamento mai richiesto, chi esige di parlare con un medico, chi richiede un nuovo appuntamento ed ognuno lo fa con le proprie modalità: parlando educatamente, con fare spazientito, urlando, bestemmiando. Il tutto in un caos infernale, il tutto in un quadro che mai immagini possa esistere, quando stai bene sdraiato al mare a prendere il sole o quando, a casa tua, ti godi la sera a tavola con la famiglia. Io sto in piedi quasi immobile, ricurvo, senza nessun tentativo di reazione. Fisicamente piegato su me stesso, come la mente che pensa agli stessi problemi. Arriva la dottoressa. Cristina Tanisi è una donna veramente eccezionale: corporatura robusta, faccia aperta e comunicativa, sguardo vivo e penetrante, sorriso coinvolgente, ti da subito “a pelle”, l’impressione della persona vispa e intelligente. Solo in un secondo tempo, dopo aver assistito ai risultati del suo lavoro, ti rendi conto anche della sua professionalità e competenza.
Scrupolosa nelle analisi del caso, precisa nelle diagnosi, decisa e risoluta nella scelta delle terapie, Cristina si è diplomata di corsa, laureata col massimo dei voti, specializzata in psichiatria nel minor tempo necessario a farlo. Entrata nell’equipe del prof. Canossa di lì a poco è responsabile degli ambulatori di psichiatria degli Spedali Riuniti di Santa Maria, ovvero di quell’ andirivieni di fuori di testa, che giornalmente affollano le dieci salette o giù di lì, di un inferno dedicato alla pazzia. Pazzia di tutti: pazienti depressi ed euforici, giovani e vecchi, poveri e ricchi, italiani e extracomunitari, medici e infermieri. In questo contesto opera Cristina Tanisi, in turni massacranti e ambiente impossibile. Rintracciarla al cellulare è impossibile. Quando si è fra i fortunati che possiedono il suo indirizzo di posta elettronica, si invia un messaggio per avere spiegazioni sulle terapie o per fissare un appuntamento e lei risponde sempre tempestivamente, magari con e-mail inviate alle ore 1,10 o giù di lì: per prescriverti una nuova terapia, niente da fare, prima ti vuol parlare e guardarti negli occhi. È così che mi ha spiegato ed ora sono davanti a lei. “Da quanto tempo sei così? Pensi ci siano delle cause scatenanti? Fisicamente come ti senti? Quanto dormi per notte? Stai mangiando o no? Fai cattivi pensieri?“. Cristina mi scarica contro tutte queste domande, mentre squadra il mio sguardo e le mie reazioni. Sono visibilmente confuso, quindi stabilisce che partiamo subito con una terapia in day-hospital. È il day-hospital quella strumento di assistenza sanitaria inventata dalle Usl, per la quale un paziente che anni fa veniva ricoverato per mesi, ora invece viene in ambulatorio la mattina per proprio conto e terminata la terapia, se ne torna a casa. E questo andirivieni può durare giorni, come mesi. Niente letto, niente biancheria, niente pranzo a carico Usl, perdita di tempo massima, costi di vacazione, spesso costi di pranzo a carico del paziente. Il terzo giorno di day-hospital, mentre sono in attesa del mio turno per la flebo, con la complicità di un farmaco per la depressione, la mia prostata si rifiuta di assecondarmi: ricovero immediato con passaggio direttamente “al chiuso”, non per le mie condizioni psichiatriche, ma perché si deve trovarmi un posto letto in camerata. “Altrimenti lo mettiamo anche nel corridoio” sentenzia Cristina. Mi fa accompagnare da Gabriella al reparto e lì troviamo un infermiere che mi porta nella camerata cui sono stato assegnato. La camera è in fondo al corridoio del reparto uomini “normale” e il mio letto è il N.2, quello centrale.
I miei compagni di avventura, che voglio chiamare pazzi, o “pazzerelli” come li definisce Jack Nicholson nel film ”Qualcuno volò sul nido del cuculo”, o semplicemente matti, perché è così che la gente di strada ci chiama e non “diversamente abili del cervello”, si sono presentati a me, in maniera, oserei dire, bizzarra.
“O Vanni“ mi sono sentito apostrofare “o che erano finiti i posti a Livorno?”.
Era costui tale Gianluca Luperini, cuoco mitomane di un ristorante di Migliarino, che abbandonato drasticamente il lavoro, aveva cominciato a comprare di tutto, scialacquando praticamente il suo patrimonio.
“Non ci fare caso, è sempre burlone, lui” aveva parlato alla mia destra una voce gutturale.
Era l’ altro compagno di camera, Calogero Manitta, muratore depresso di Palermo, bloccatosi improvvisamente di fronte all’ intonacatura di un muro.
Ora che a forza di flebo e pasticche sta notevolmente meglio, ha acquistato un appetito bestiale, per cui elemosina qualsiasi alimento agli altri ricoverati: avanzi del pranzo o della cena, frutta, biscotti. Tutto va bene purché sia commestibile, anche se spesso si accontenta solo di qualche merendino rancido. Oltre tutto, incurante delle raccomandazioni di medici, infermieri e moglie, se ne esce dall’ospedale insieme a Luperini, passando dal cancello laterale che sbuca proprio davanti ad un bar-tabaccheria e lì tutti e due si fanno l’aperitivo e il pieno di sigarette. Insomma due casi di malasanità conclamata e perpetrata dai pazienti.
Questa è la mia compagnia del B&B di psichiatria: speriamo chiuda presto per me.
La cartella clinica sulla sponda del letto recita: “Il paziente è al primo ricovero presso questa struttura e in ambito specialistico.
Familiarità riferita positiva per disturbi dell’umore in linea materna.
Anamnesi premorbosa: tratti anancastici di personalità ed elementi appartenenti allo spettro panico-agorafobico.”. Per me è algebra, capisco poco di questo scritto, so solo che sono ricoverato da 20 giorni. Dicono che sto meglio, dicono che uscirò presto, questo dicono. Intanto è quasi Natale, fuori nevica ed il grande abete del giardino del reparto è tutto imbiancato.
Mentre scende la neve, Luperini, il mio compagno di camera, affacciato alla finestra, continua a gridare: “Aiuto, vi hanno rinchiusi tutti fuori! “.

Racconto di Andrea Vanni, concorso letterario 2013 Squarciare i silenzi