LE MIE PRIGIONI di Silvio Pellico

Le mie prigioniTitolo: Le mie prigioni
AutoreSilvio Pellico

In breve:
Il venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amante maltrattato dalla sue bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo d’altro.
Alle nove della sera di quel povero venerdì, l’attuario mi consegnò al custode, e questi, condottomi nella stanza a me destinata, si fece da me rimettere con gentile invito, per restituirmeli a tempo debito, orologio, denaro, e ogni altra cosa ch’io avessi in tasca, e m’augurò rispettosamente la buona notte.
«Fermatevi, caro voi;» gli dissi «oggi non ho pranzato; fatemi portare qualche cosa.»
«Subito, la locanda è qui vicina; e sentirà, signore, che buon vino!»
«Vino, non ne bevo.»
A questa risposta, il signor Angiolino mi guardò spaventato, e sperando ch’io scherzassi. I custodi di carceri che tengono bettola, inorridiscono d’un prigioniero astemio.
«Non ne bevo, davvero.»
«M’incresce per lei; patirà al doppio la solitudine…»

Introduzione:
Le mie prigioni”, scritto da Silvio Pellico tra il 1831 ed il 1832, è un testo puramente autobiografico che racconta la vita dell’autore nell’arco di tempo che va dal 13 Ottobre 1820, giorno in cui Pellico venne arrestato a Milano per la sua partecipazione ai moti carbonari, al 17 Settembre 1830, giorno del suo ritorno a casa dopo il periodo di prigionia.

Nel romanzo Pellico descrive essenzialmente l’esperienza carceraria, sua e dell’amico Piero Maroncelli, prima nelle carceri di Milano e Venezia, ed infine nel penitenziario di Brno in Austria (la fortezza dello Spielberg) in seguito alla conversione della condanna a Morte, inizialmente ricevuta, in uno stato di carcere duro.

Grazie al supporto ottenuto dal ministro guardasigilli Giuseppe Barbaroux, il libro riuscì a superare gli ostacoli imposti dalla censura e ad essere quindi pubblicato dall’editore Bocca nel mese di Novembre del 1832. L’opera godette subito di una grande popolarità, non solo in Italia ma anche all’estero.
Nel 1843 comparvero nella traduzione francese dei capitoli aggiuntivi, redatti sempre nel 1832, che allargano l’arco temporale trattato nel romanzo al periodo immediatamente successivo alla liberazione di Pellico.

Il libro descrive con realismo l’asprezza del carcere austriaco e del regime asburgico. Il primo ministro austriaco Metternich arrivò persino a ritenere che l’opera letteraria di Pellico danneggiò l’immagine dell’Austria più della guerra perduta.
Il romanzo contribuì inoltre a far nascere le simpatie degli intellettuali europei verso i primi moti risorgimentali italiani.

L’autore scrisse il libro, una volta uscito dal carcere, su suggerimento di un prete e con il consenso della madre. Lo stimolo che ha dato vita al romanzo venne rivelato solo in un secondo tempo, successivamente alla sua pubblicazione, quando Pellico decide di aggiungere qualche capitolo all’opera.
L’intento di Silvio è quello di “contribuire a confortare qualche infelice coll’esponimento de’ miei mali che patii e delle consolazioni ch’esperimentai essere conseguibili nelle somme sventure”. L’autore vuole cioè portare da esempio le consolazioni, le soddisfazioni personali derivanti dalla fede cristiana, che gli consentirono di superare i momenti più difficili vissuti in carcere.

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Riassunto:
Silvio racconta di essere stato arrestato a Milano nella casa del conte Luigi Porro, per il quale lavorava come segretario ed educatore dei due figli, il giorno di venerdì 13 Ottobre 1820 e di essere stato quindi condotto alle carceri di Santa Margherita con l’accusa di Carboneria. La situazione di Pellico viene subito compromessa dalla lettera di un suo amico, Maroncelli (che verrà a sua volta arrestato), intercettata dalle guardia.

E’ già durante la prima notte di carcere che nasce in Pellico la decisione risoluta di abbracciare la fede cristiana. Tale decisione viene presa dopo aver pensato ai propri cari, che sicuramente avrebbero patito la notizia della sua cattura, ma che, si rassicurava, avrebbero anche saputo trovare in Dio la forza necessaria per superare quel momento difficile. Pellico trova nella fede nuova forza, un buono spirito e la tranquillità, e questo gli dà conferma di aver fatto la scelta giusta.
Questa sicurezza sarà però più volte messa in discussione, durante la sua prigionia, da malattie sue e dei suoi compagni, che nelle carceri troveranno la morte, ed anche da separazioni dolorose dovute a trasferimenti di cella e di prigione.
Pellico durante la sua prigionia viene infatti trasferito più volte in carceri diverse.

A Santa Marherita lo scrittore ha l’occasione di fare la conoscenza di Melchiorre Gioja e di un ragazzino sordomuto a cui si affeziona subito moltissimo. Si invaghisce anche di una detenuta (Maddalena) dotata di una voce soave, e conosce quindi un personaggio che si spaccia per l’infelice duca di Normandia, figlio di Luigi XVI e di Maria Antonietta.
Quando si trova a Milano il padre gli fa visita per due volte ed in quei frangenti Silvio si mostra più sicuro e fiducioso di quello che in realtà è. Cerca infatti di non mostrare al genitore il suo umore reale, per non impensierirlo. Il padre mantiene così molta fiducia in una sua prossima scarcerazione, cosa che però non avverrà.

Il 19 Febbraio 1821 Silvio viene trasferito a Venezia. Le prigioni di Venezia erano chiamate i Piombi perchè sovrastate da un tetto ricoperto di piombo.
Conosce qui la Zanze, la figlia dei carcerieri, che prende subito l’abitudine di fermarsi a fare un pò di conversazione con lo scrittore, perchè con lui sente di poter parlare senza problemi del suo amante. La presenza della ragazza allieta molto Pellico e per questo lo scrittore ringrazia la Provvidenza.
Della vita passata in queste prigioni, Silvio descrive principalmente l’insopportabile calore ed i mille insetti che lo tormentano, e che dopo averlo fatto disperare lo riavvicinano infine alla fede. Racconta anche di uno scambio di lettere avuto con un certo Giuliano, che contesta la veridicità della sua fede. Pellico dapprima s’infuria e non vuole rispondergli, poi ci ripensa, ma infine, dopo qualche altro scambio di lettere, mette definitivamente fine alla corrispondenza.
Successivamente viene trasferito in un’altra cella, dove trova un tavolino e comincia così a scrivere. Scrive poesie, scrive i suoi pensieri e racconta della fede cristiana.
Supera anche una strana malattia che lo rende insonne e che lo porta lontano dalla fede; che ritroverà poi una volta guarito.
Pellico racconta quindi della sua fase di preparazione alla morte, una volta saputo che i prigionieri arrestati prima di lui, con la stessa accusa di carboneria, erano stati condannati a morte. Crede di essere ormai pronto ad affrontare la sua fine, quando un incendio che scoppia vicino alle carceri gli dà la dura prova del contrario.

Dopo aver ricevuto definitivamente la condanna a 15 anni di reclusione in stato di carcere duro (lavori forzati ed obbligo di catene da portare alle caviglie), Silvio viene trasferito nuovamente, questa volta da Venezia a Brno, alla fortezza Spielberg. Qui lo scrittore trascorre i successivi 8 anni della sua priginia, prima di beneficiare della grazia concessa dall’imperatore austriaco, che riduce di fatto la sua pena a 10 anni di carcere.
Allo Spielberg ha occasione di assistere il suo amico Maroncelli, al quale era stata in precedenza amputata una gamba.

Anche in occasione della grazia, Pellico e i suoi compagni liberati (Maroncelli e un altro progioniero) rivolgono il pensiero ai loro cari, temendo di non trovare più nessuno, ed agli altri carcerati che hanno trovato la morte durante il periodo di prigionia.

Il ritorno a casa di Pellico è segnato da un’altra strana malattia, che gli impedisce il respiro e che lo spinge quasi sul punto di morte quando si trova a Vienna. Nella città austriaca si rianima un pò, ma tutto il viaggio sarà comunque scandito da continue ricadute che ne rallenteranno il ritorno. Di questo Silvio si rammarica perché sente di essere di “peso” agli altri due suoi compagni, che come lui avevano ricevuto la grazia.
Altre pause vengono invece ordinate dall’Imperatore, che impone loro alcune fermate obbligate.

Giunti infine a Mantova, Maroncelli e Pellico si separano, ognuno procede da solo per raggiungere i propri cari. Pellico prosegue la sua strada verso Brescia e poi verso Milano. Qui la sua identità diviene nota e molte persone si radunano quindi sotto la finestra della sua camera d’albergo.
A Milano riceve anche buone nuove riguardo suo padre e suo fratello, ma nulla su sua madre e sulle sue sorelle.
Costretto a fermarsi in città sia per questioni burocratiche che per febbre, il 10 Settembre riprende infine il viaggio per Novara, dove si ferma per una notte per poi percorrere l’ultimo tratto verso Torino.
Vi giunge di sera e vi ritrova così i suoi cari. Manca solo la sorella monaca perché deceduta in precedenza.

Silvio Pellico ringrazia nuovamente la Provvidenza per tutto il bene e il male passato.


Nei 12 capitoli aggiunti in seguito alla prima edizione del romanzo, Silvio Pellico racconta il periodo successivo al ritorno a casa. Scrive di come passò la prima notte nell’angoscia, cercando il sonno senza trovarlo, di come gli diede gioia il rivedere il padre ed il fratello, ed ancora una volta ringrazia la Provvidenza.

La sua salute non è buona, ma continua lo stesso a mostrare più forza di quanta ne abbia realmente, per poter continuare a raccontare la sua storia. Lo stato di insonnia febbrile dura circa 4 mesi, nei quali fa sempre un sogno ricorrente, quello di essere ancora prigioniero.
La sua salute nei due anni successivi è segnata da continui miglioramenti e ricadute, fino a quando finalmente il suo corpo riprende vigore.
Ai mali fisici si accompagnano però anche i dispiaceri dell’anima per le persone care che ha perduto, per altre che sono mosse dall’odio nei suoi confronti, per delle calunnie che è costretto a subire ed anche per gli sconvolgimenti che si verificano in Francia e per le rivoluzioni compiute o tentate. Silvio non sopporta infatti che l’amore per la patria porti a violenza, perché il Cristianesimo, nel quale crede, vuol dire “odio profondo contro l’ingiustizia congiunto all’amore del bene pubblico, ma colla ferma risoluzione di non commettere il male per la speranza del bene”.
Lo scrittore riporta nello scritto anche alcune reazioni esterne, certe di approvazione nei suoi confronti ed altre al contrario con l’intenzione di insultarlo ed offenderlo, perché convinte che il suo amore per la Chiesa sia solamente frutto dell’ipocrisia.

L’idea di scrivere il libro fu suggerita a Silvio dall’abate Giordano, che divenne il suo padre spirituale. Lo scopo dello scrittore era quello di dare testimonianza della carità del Signore verso coloro che ricorrono alla sua grazia.
Inizialmente Pellico non è proprio convinto di scrivere perché pensa che sia troppo presto, poi però inizia. Dopo aver fatto leggere i primi capitoli ad un suo amico, che lo scoraggia, ha un ripensamento, ma alla fine termina comunque il libro e lo pubblica.

Dopo la pubblicazione riceve molte critiche, anche da parte dei suoi amici, che arrivano persino a volgere il capo dall’altra parte quando lo incontrano per strada.
Nonostante ciò il libro incominciò ad avere un certo successo e fu tradotto subito anche in altre lingue.