Giacomo Leopardi

Canti:Zibaldone di pensieriOperette morali
L’INFINITO
ALLA LUNA
ULTIMO CANTO DI SAFFO
LA SERA DEL DI’ DI FESTA
A SILVIA
IL PASSERO SOLITARIO
LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA
IL SABATO DEL VILLAGGIO
A SE STESSO
LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO
AMORE E MORTE
CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL’ ASIA

Giacomo LeopardiLa poesia, la vita e il nulla. Giacomo Leopardi (1798-1837) è indiscutibilmente una figura centrale nel canone letterario italiano ed europeo. La sua poesia ha saputo toccare le corde più profonde dell’esistenza umana, indagando la fragilità dell’uomo, indifeso dinanzi all’aridità del reale e perennemente in balia di forze ostili (siano esse la società o la natura), che ne decretano l’infelicità e il male di vivere. L’impegno poetico leopardiano non si risolve tuttavia nella rinuncia e nella rassegnazione di fronte alla negatività del reale: sebbene il poeta di Recanati sia stato annoverato da una parte della critica tra i precursori del nichilismo europeo, la sua poesia è uno straordinario strumento d’indagine sulla condizione umana e un inesausto atto di rivalsa contro la sofferenza e l’infelicità connaturate a questa condizione. L’immodificabilità delle leggi della natura non impedisce a Leopardi di rivendicare il diritto alla felicità, non ha come conseguenza l’inaridimento della sfera affettiva e la distruzione delle “illusioni”: il riconoscimento della piccolezza dell’uomo e dei propri limiti si traducono piuttosto, nell’ultima stagione leopardiana, in un invito alla solidarietà tra gli uomini. La lirica leopardiana è perciò un accorato slancio verso la vita, una tensione a volte nostalgica, a volte disperata alla felicità, nonostante tutto.

La centralità dell’io. Uno dei tratti salienti e più originali della lirica leopardiana è la nuova centralità dell’io poetico, che pervade l’intera esperienza poetica dei Canti. Erede, per certi versi, della poesia petrarchesca, egli ne rinnova e ravviva il modello, che i secoli avevano ridotto a maniera e accademia. Disincrostata da ogni atteggiamento artificioso, la nuova poesia leopardiana diventa l’alloggio dei sentimenti, degli affetti e dei pensieri dell’io, che muovono dall’autobiografico al lirico, senza pose e senza pretesa di esemplarità: non c’è verso che non sia in qualche misura implicato nelle vicende interiori del poeta; a loro volta queste ultime si mescolano a un’esperienza di tipo conoscitivo, dando vita a un connubio del tutto nuovo nella lirica italiana. In Leopardi l’effusione sentimentale non è mai una narcisistica contemplazione dell’io, ma una chiave per accedere a meditazioni di carattere universale che investono l’esistenza dell’uomo, l’infelicità, il dolore.

La tensione sperimentale. La novità della poesia leopardiana non si risolve in ambito tematico e in un rinnovato rapporto tra l’io lirico e l’oggetto del suo canto. L’impiego di formule interrogative, di argomentazioni di carattere filosofico, di aperture dialogiche nei confronti di personaggi tratteggiati nei suoi versi rendono le sue liriche un’affascinante sintesi di canto e pensiero e pongono Leopardi al riparo da ogni patetico sentimentalismo. Al contempo Leopardi rinnova il genere lirico anche sul piano formale, rompendo la struttura metrica fissa tradizionale e introducendo uno schema libero e una sequenza di rime complessa e diversificata, anche all’interno dello stesso componimento. In tal modo il poeta recanatese fa reagire la tradizione classica con una tensione sperimentale del tutto nuova nella poesia italiana.

Il rapporto con la tradizione e il romanticismo. Questo rapporto insolito tra tradizione e innovazione pervade non solo l’impianto formale della sua poesia, ma anche e soprattutto lo spirito e l’atteggiamento di Leopardi, che vanta una formazione rigorosamente classica, ma si pone in una posizione originale nei suoi confronti. Nella disputa classici-romantici, Leopardi difende i primi, rimproverando ai poeti romantici l’eccessiva artificiosità retorica nella ricerca dell’insolito e la preponderanza del vero sull’immaginazione. D’altra parte il giudizio di Leopardi è negativo anche nei confronti del classicismo accademico, vittima della sua stessa rigida imitazione dei classici, incapace di esaltare la spontaneità e imitare la natura. Pertanto, se da un lato Leopardi si pone come erede della tradizione classica e ne rinnova i modelli, dall’altro il ruolo che conferisce alla lirica come strumento di espressione immediata dell’io, tensione verso l’infinito, luogo privilegiato dell’immaginazione, lo avvicina molto al romanticismo europeo.

La teoria del piacere e il “vago e indefinito”. La poetica leopardiana, infatti, approda a concezioni prossime a quelle dei grandi poeti romantici francesi e tedeschi, ma partendo da un retroterra sensista e illuminista. Per Leopardi, infatti, proprio come per i sensisti, la felicità coincide con il piacere sensibile e materiale; il desiderio di quest’ultimo però è destinato a rimanere insoddisfatto, perché il desiderio è infinito e si alimenta di continuo. Ma ciò che non si può trovare nella realtà (il piacere), scrive Leopardi nello Zibaldone, «si trova così nell’immaginazione», che diventa un momentaneo e illusorio appagamento di quel desiderio, colmando il bisogno di infinito. L’immaginazione, tuttavia, non è una facoltà astratta, ma si genera dalla “visione” e si accende proprio partendo da ciò che l’occhio non vede o riesce appena a percepire. Da qui emergono quelle sensazioni di vago e indeterminato, che secondo Leopardi possono essere evocate in poesia tramite suoni e immagini suggestivi. Secondo il poeta le sensazioni che più ci affascinano sono le stesse che rievocano la nostra fanciullezza e sono recuperabili attraverso la “rimembranza”, cioè il ricordo di quella visione ingenua e meravigliata che si ha da fanciulli.

Gli antichi e i moderni. Basandosi sulla distinzione tra “poesia ingenua” e “poesia sentimentale” proposta da Schiller e ripresa da Madame de Staël, Leopardi osserva come la poesia degli antichi è quella più prossima alla visione immaginosa dei fanciulli; mentre i poeti moderni hanno perduto quella facoltà, limitata dalla ragione e dalle idee filosofiche. Pur appartenendo storicamente alla seconda categoria, Leopardi nella sua poesia persegue con vigore la ricerca di accenti e visioni “vaghi e indefiniti”, alla maniera degli “antichi”.

Leopardi “filosofo”. Le teorie leopardiane, frutto di anni di riflessioni filosofiche appuntate nello Zibaldone, hanno certamente una funzione “poetica” e sono una chiave interpretativa preziosa nella lettura delle poesie oltre a rappresentare una scrittura dall’inconfutabile valore letterario di per sé. Questi scritti hanno tuttavia indotto gli studiosi a parlare di un Leopardi “filosofo”, nonostante il carattere non sistematico della sua scrittura. Quel che è certo è che Leopardi ha elaborato non pochi concetti e teorie validi sia per scandire le fasi delle sue meditazioni filosofiche sia per tracciare una poetica.

Il “bello”, il “vero”, le “illusioni”. In un passo dello Zibaldone del 1820 Leopardi parla di come sia maturata la propria «conversione letteraria» tra il 1815 e il 1816, e dell’urgenza di avvicinarsi al “bello” della poesia, una fase che supera quella degli studi eruditi per approfondire invece la lettura dei grandi poeti. Nel 1819 tuttavia si ebbe una nuova stagione, quella che Leopardi chiama «conversione filosofica» e che segnò il passaggio «dal bello alla ragione e al vero», cioè al confronto con l’aridità del reale e della società, che non sancì tuttavia l’abbandono della poesia, bensì l’apertura nei confronti delle “illusioni”, le sole che possono garantire consolazione all’uomo (l’amore, la rimembranza, la gioventù…) e nutrire la poesia. Queste fasi in realtà non coincidono del tutto con quelle che il critico Bonaventura Zumbini nel 1902 definì “pessimismo storico” e “pessimismo cosmico”, ma rappresentano un primo cambio di indirizzo di Leopardi riguardo al rapporto tra l’uomo e l’infelicità e l’uomo e la natura.

Il concetto di natura. Già nell’elaborazione della teoria del piacere Leopardi lascia supporre che l’infelicità sia connaturata alla natura umana, riflessione cui il poeta recanatese giunse qualche anno più tardi. Inizialmente infatti Leopardi guardava alla natura come a una madre “benigna” e l’infelicità era causata dal distacco dell’uomo dalla natura. Il passaggio al meccanicismo vero e proprio e alla negazione di ogni possibile felicità nella vita avviene con la stesura delle Operette morali e al temporaneo abbandono della poesia in favore della prosa: Leopardi nega ogni finalità positiva nella vita, che risulta sostanziata dal dolore e dall’infelicità. È questa la fase che Zumbini definiva “pessimismo cosmico”, in cui la natura diventa “matrigna” e il dolore inalienabile.

Il rapporto con la società e la storia. Dalle sue posizioni radicalmente atee e meccaniciste e con uno sguardo critico e lucidissimo sulla realtà del suo tempo, l’ultimo Leopardi smascherò i falsi miti dei liberali moderati, che dominavano la scena politica di allora, andando spesso controcorrente, al punto da sembrare conservatore e retrogrado. In realtà Leopardi si batteva contro i luoghi comuni, le ipocrisie, la formazione di un’opinione comune e manovrabile (si pensi ad alcuni dialoghi delle Operette morali) e le tendenze della sua epoca che andavano in direzione di un mito del progresso spesso acritico: il poeta recanatese poneva l’accento, con sguardo profetico, sulle conseguenze imprevedibili che poteva avere il progresso tecnologico, che di lì a poco si sarebbero realizzate (corsa agli armamenti, guerre sanguinose, volontà di dominio). In particolare nella Ginestra l’ammonimento del pensiero dell’Ottocento, “secol superbo e sciocco”, e delle “magnifiche sorti e progressive” è un invito a mutare direzione, per far fronte al destino di sofferenza che accomuna gli esseri umani.