Parafrasi canto 16 (XVI) dell’Inferno di Dante

Parafrasi del Canto XVI dell’Inferno – Dante incontra tre illustri fiorentini (Guido guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci) che gli chiedono se sono vere le brutte novità sentite riguardo alla città.

Leggi il testo del canto 16 (XVI) dell’Inferno di Dante


Ero oramai giunto nel punto da cui si poteva sentire il rimbombo
delle acque, del fiume Flegetonte, che dal cerchio settimo cadevano
nell’ottavo, rimbombo simile a quello che fanno le api intorno all’alveare,

quando tre anime si allontanarono insieme,
correndo, da una schiera che passava
sotto la pioggia infuocata in quello straziante tormento.

Venivano verso di noi ed ognuna di loro gridava:
“Fermati un poco, tu, che per l’abito che indossi, sembri
essere uno che proviene dalla nostra malvagia terra, Firenze.”

Ahimè, che orribili ferite vidi sui loro corpi,
sia recenti che vecchie, provocate dalle fiamme!
Ancora adesso, solo a ricordarlo, mi rattristo per ciò che vidi.

Sentendo le grida, il mio maestro Virgilio prestò attenzione a loro;
volse il suo sguardo verso di me e mi disse: “Fermati:
con costoro bisogna essere cortesi.

E se non fosse per il fuoco che scende come saette dal cielo
per la natura del luogo, direi anzi che dovresti
essere tu ad avere fretta di parlare con loro e non loro con te.

I tre ripresero, non appena ci videro fermi, la loro
solita andatura; e quando giunsero infine presso di noi,
si misero tutti e tre in cerchio e cominciarono a girare in tondo,

come sono soliti fare i lottatori, nudi ed unti,
quando fissano l’avversario e cercano una presa che possa dare loro
un vantaggio, prima di inziare a percuotersi ed urtarsi;

e ruotando in questo modo, ciascuno di loro indirizzava il suo viso
verso di me, così che i loro piedi continuavano a muoversi in direzione
opposta a quella in cui volgevano il collo.

E “Se l’orrore di questo luogo instabile, cedevole,
ti porta a disprezzare noi e le nostre preghiere” cominciò a dire
uno di loro “e lo fa anche il nostro aspetto annerito e lacerato,

possa però la nostra fama spingere il tuo animo
a dirci chi sei tu, che i piedi ancora vivi
trascini per l’inferno con tanta sicurezza.

Costui davanti a me, al quale mi vedi (procedendo in cerchio) calpestare
le orme, sebbene ora proceda tutto nudo e spellato,
fu in vita di grado maggiore di quanto tu possa credere;

fu nipote della potente Gualdrada;
il suo nome fu guido Guerra, e nel corso della sua vita
compì grandi imprese grazie alla sua saggezza ed al suo valore.

L’altro che procede dietro a me calpestando la sabbia,
è Tegghiaio Aldobrandi, il cui nome dovrebbe essere
ancora ricordato con affetto nel mondo lassù dei vivi.

Ed io, che vengo punito insieme a loro,
sono stato in vita Jacopo Rusticucci; e di certo
mi ha arrecato danno più di tutti la mia intrattabile moglie.”

Se non avessi dovuto temere il contatto con il fuoco,
mi sarei subito gettato in mezzo a loro, giù nel sabbione,
e credo anche che virgilio me l’avrebbe permesso;

ma dal momento che mi sarei invece bruciato e scottato,
la paura prevalse sulla buona volontà
che mi rendeva invece desideroso di abbracciarli.

Cominciai allora a dire: “Non disprezzo, ma tanto dolore
mi ha ispirato la vostra condizione, così tanto
che ci vorrà molto tempo prima che possa cessare totalmente,

(mi ha ispirato) non appena questa mia guida mi parlò di voi
con parole che mi fecero subito pensare che ci stava venendo incontro
gente molto importante, come voi siete.

Vengo dalla vostra stessa terra, Firenze, e sempre
le vostre opere ed i vostri onorati nomi
ho ascoltato e raccontato con tanto affetto.

Lascio l’amarezza del peccato e vado verso i dolci frutti della virtù
che mi sono stati promessi dalla mia guida veritiera, che dice il vero;
ma, prima, conviene che io scenda fino al centro della terra.”

“Possa la tua anima condurre per ancora tanto tempo
il tuo corpo (possa tu vivere a lungo)” disse ancora Rusticucci,
“e la tua fama possa vivere ancora dopo che tu sarai morto,

ma dimmi intanto se si trovano ancora cortesia e valore nella nostra
città, Firenze, adesso come erano erano soliti esserci allora,
o se invece se ne sono completamente andati;

perché Guglielmo Borsieri, che soffre la nostra stessa pena
da non molto tempo e procede là insieme ai nostri compagni,
si lamenta di continuo della situazione con i suoi racconti.”

“I nuovi abitanti (invasori) e la loro improvvisa ricchezza
hanno dato luogo ad orgoglio ed eccessi
in te, Firenze, tanto smoderati che già te ne fanno dispiacere.”

questo gridai con la faccia levata la cielo; ed i tre,
che presero il mio lamento come una risposta, si guardarono l’un l’altro
increduli, come si è soliti fare di fronte ad una verità incontestabile.

“Se anche in altre occasioni ti è costato così poco”
dissero tutti e tre insieme “soddisfare le domande altrui,
beato allora te che puoi dire quello che vuoi senza riguardi!

Perciò, ci auguriamo che tu possa uscire da questi luoghi bui
e ritornare a vedere le belle stelle,
e quando troverai il piacere di dire “Io ci sono stato”,

ricordati anche di parlare di noi alla gente.”
Poi sciolsero il cerchio, e si allontanarono tanto velocemente
che le loro gambe sembrarono ali.

Non sarei stato capace di dire Amen in minor tempo;
di quello che i tre impiegarono per sparire dalla nostra vista;
perciò Virgilio decise che era il momento di andarcene.

Io lo seguivo, e ci eravamo rimessi in cammino da poco tempo che già
il suono delle acque del fiume Flegetonte si sentiva tanto vicino
che se ci fossimo parlati avremmo fatto fatica a sentirci l’un l’altro.

Come quel fiume che scorre
dal monte Visi, da cui nasce, prima verso levante
lunga la costa sinistra dell’Appennino,

chiamato Acquacheta nel tratto superiore, prima che
scenda a valle nel suo basso letto,
e dopo aver perso a Forlì il suo nome iniziale,

rimbomba sopra San Benendetto
dell’Alpe precipitando a formare una cascata, là dove
vorrebbero costruire un castello capace di ospitare più di mille persone;

allo stesso modo, precipitando giù da una ripica parete,
risuonava in quel luogo l’acqua di colore rosso del Flegetonte,
con un boato tanto forte che in breve avrebbe fatto male all’orecchio.

Portavo legata intorno a me una corda,
con la quale avevo sperato un tempo
di catturare la lonza dalla pelle variopinta (di vincere la Lussuria)

Dopo averla slegata completamente,
facendo come la mia guida Virgilio mi aveva detto di fare,
la porsi a lui annodata ed avvolta a matassa.

Virgilio di volse poi verso destra,
e un poco lontano dalla sponda
la gettò giù sotto in quel profondo burrone.

“Bisogna per certo che ci sia qualche novità in risposta”
dicevo tra me e me “a questo strano gesto
che il mio maestro segue con un occhio tanto attento.”

Ahi, quanto devono essere prudenti gli uomini
quando si trovano a che fare con chi non solo vede cosa fanno,
ma riesce anche a guardare con intelligenza ai loro pensieri.

Virgilio mi disse: “Tra poco salirà qua sopra
ciò che sto aspettando e che il tuo pensiero sta immaginando:
conviene che a breve si mostri anche ai tuoi occhi.”

Sempre a quella verità che ha l’aspetto di una menzogna
l’uomo deve chiudere le proprie labbra finché può farlo,
così da evitare di fare la figura del bugiardo pur non avendo colpe;

ma qui non posso purtroppo tacere; e per le parole
di questa mia Commedia, lettore, ti giuro,
che prego possano a lungo riuscire non prive di grazia,

che io vidi per quell’aria densa e buia
venire in su, nuotando, una figura
che avrebbe stupito anche il cuore più coraggioso,

come torna in superficie colui, il palombaro, che va
a volte in profondità per liberare una ancora che si è incagliata
ad uno scoglio o ad un altro ostacolo nascosto nel mare,

stendendo verso l’alto petto e braccia, e ritraendo al busto le gambe.

 < Parafrasi Canto 15Parafrasi Canto 17 >