Parafrasi canto 3 (III) dell’Inferno di Dante

Parafrasi del Canto III dell’Inferno – Dante e Virgilio attraversano la porta dell’Inferno. Nell’anticamera dell’inferno incontrano gli ignavi. Attraversano quindi in fiume infernale Acheronte sull’imbarcazione guidata da Caronte, traghettatore delle anime dannate.

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Giunta infine la sera del venerdì santo (8 aprile 1300), Virgilio e Dante raggiungono la porta dell’inferno, che nella sua parte alta porta incisa la famosa scritta conclusa con la sentenza “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate“, “Abbandonate per sempre ogni speranza voi che entrate”.

Virgilio prende per mano Dante ed entrambi attraversano l’uscio etrando così nel mondo dei dannati. L’ambiente è cupo, buio, e risuona subito di pianti, lamenti, imprecazioni e rumori di percosse. Quell’anticamera dell’inferno accoglie gli ignavi, coloro che vissero senza prendere mai una posizione, né buona né cattiva, inutili a sé stessi ed alla società. Tra le anime dannate si trovano anche gli angeli che nella guerra tra Dio e Lucifero non si schierarono né dall’una né dall’altra parte.

Gli ignavi si lamentano della loro sorte, non possono che invidiare chiunque altro, essendo trascurati da tutti con disprezzo ed non avendo lasciato in vita nessun ricordo di sé. Le anime dannate sono continuamente punzecchiate da mosconi e vespe, così da versare ora inutilmente (sono solo cibo per vermi) quelle lacrime e quel sangue che in vita non furono in grado di versare. Sono anche costrette ad inseguire una insegna che cambia rapidamente posizione in ogni momento.
Dante riconosce tra le anime quella di Celestino V, colui che per codardia aveva ceduto alla carica papale lasciando il posto a Bonifacio VIII, che il poeta ritiene responsabile del male di Firenze e del suo esilio. Dante vede poi il fiume Acheronte e l’immensa schiera di anime pronte ad essere traghettate sull’altra sponda da Caronte.
Il traghettatore infernale si avvicina alla sponda, subito urla contro i dannati, minacciandoli e spaventandoli, poi si rivolge a Dante per impedirgli il viaggio.
Virgilio interviene e pronuncia per la prima volta la celebre frase “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare“, “così è stato deciso in Paradiso, là dove si può fare ciò che si vuole, e non chiedere altro”, zittendo il demone.

Le parole di Caronte fanno tramare di paura le anime dannate, che maledicono tutto e tutti per poi raccolgliersi sulla riva per prendere posto sul battello.

La riva del fiume viene completamente sgomberata, per poi riempirsi subito di altre anime dannate, provenienti da ogni parte del mondo, morte nel peccato capitale e quindi destinate all’inferno.
La giustizia divina le spinge a convertire la loro paura per il destino che le attende, in un forte desiderio di conoscere la sentenza di Minosse.

Mentre Dante e Virgilio sono ancora sul battello, la terra inizia a tremare, si alza un forte vento ed una intenza luce rossa fa perdere i sensi al poeta.


“Attraverso me si va nella città del dolore,
attraverso me si va nell’eterno dolore,
attraverso me si va tra le genti dannate.

Fui fabbricata da Dio eccelso mosso da giustizia;
mi fece la Divina potenza,
la suprema Sapienza ed il primo Amore.

Prima di me ci furono solo creature
immortali, ed anche io durerò in eterno.
Abbandonate per sempre ogni speranza voi che entrate.”

Queste parole in colore scuro
vidi io scritte nella parte alta di una porta;
perciò io dissi: “Maestro, il loro significato mi fa paura.”

Ed egli mi disse quindi, da persona esperta:
“Qui deve essere abbandonato ogni dubbio;
ogni vigliaccheria deve essere qui cessata per sempre.

Noi siamo giunti in quel luogo del quale ti ho parlato,
nel quale vedrai le anime dannate
che hanno perduto Dio, nutrimento dell’intelletto.”

E dopo avermi preso per mano
con espressione lieta, che mi diede coraggio,
mi condusse all’interno al misterioso mondo dei morti.

All’interno sentii sospiri, pianti e forti guaiti,
risuonare in quell’ambiente chiuso e cupo,
per i quali mi venne subito da piangere.

Strane lingue parlate, orribili modi di esprimersi,
parole di dolore, intonazioni che esprimevano rabbia,
voci forti e voci deboli, e con esse rumori di mani occupate a percuotere

facevano una gran confusione, che non cessa mai di agitarsi
in quell’aria eternamente buia,
così come la sabbia viene agitata nel deserto dal vortice d’aria che la circonda.

Ed io, che avevo la testa immersa nei dubbi,
chiesi a Virgilio: “Maestro, cos’è questa confusione che sento?
e chi sono queste anime che sembrano tanto afflitte dal dolore?”

E lui mi rispose: “In questa miserabile condizione
vengono tenute le anime tristi degli ignavi, coloro
che vissero, in modo insignificante, senza disonori ma anche senza meriti.

Si trovano qui mischiate a quel cattivo gruppo
di angeli che non furono né ribelli, nella ribellione di Lucifero,
né fedeli a Dio, ma si curarono solo di sé stessi.

Sono stati cacciati dal cielo perché ne rovinerebbero la bellezza,
ma neanche il profondo inferno li accoglie,
perché i dannati potrebbero gloriarsi, sentendosi superiori, della loro presenza.

Dissi allora: “Maestro, a che pena tanto dolorosa
sono loro sottoposti per lamentarsi tanto forte?”
Mi rispose: “Te lo spiegherò molto brevemente.

Costoro non possono sperare di cessare d’esistere,
e questa loro vita senza speranze è tanto spregevole
da renderli invidiosi di qualunque altra sorte.

Il mondo non lascia che si conservi qualche ricordo di loro;
la misericordia divina e la giustizia infernale li rifiutano con disprezzo:
non perdiamo tempo a parlare di loro, osservali solo e procedi oltre.”

Ed io, che osservai, vidi una insegna
che girando tra le anime procedeva tanto velocemente
che sembrava non dovesse mai trovare una posizione fissa;

e dietro a le, seguendola, procedeva fila una così lunga
di gente, che io non avrei mai potuto credere
che la morte avesse fatto tante vittime.

Avendo riconosciuto alcune delle anime,
guardai più attentamente e riconobbi l’anima di colui
che per viltà rifiutò la carica papale (Celestino V).

Capii subito e ne fui anche certo
che questa era la schiera dei vili, dei codardi,
che non piacciono a Dio, perché non buoni, e nemmeno ai suoi nemici, perché non malvagi.

Questi disgraziati, che mai furono realmente vivi,
stavano nudi ed erano continuamente punzecchiati
dai mosconi e dalle vespe che si trovavano là con loro.

Le punture facevano scorre sui loro volti sangue,
che, mischiato alle loro lacrime, cadeva a terra ed ai loro piedi
veniva raccolto da vermi schifosi.

Spingendo oltre lo sguardo,
vidi molta gente in riva ad un grande fiume;
dissi perciò a Virgilio: “Maestro, concedimi ora

di sapere chi sono quelle anime e quale legge
le rende tanto desiderose di oltrepassare quel fiume,
come mi sembra di vedere attraverso questa scarsa luce.”

Ed egli disse: “Queste cose ti saranno chiare
quando ci fermeremo noi stessi
sulla dolorosa sponda del fiume Acheronte.”

Allora, con gli occhi bassi e pieni di vergogna per la risposta ricevuta,
temendo che il mio continuo chiedere non fosse gradito,
mi astenni dal parlare fino a che non raggiungemmo il fiume.

Ed ecco, una volta giunti, venire verso di noi su di una nave
un vecchio, tutto bianco per l’età avanzata,
gridando: “Guai a voi, anime malvagie!

Non sperate di poter mai vedere il cielo:
io vengo per condurvi sull’altra sponda del fiume,
nella notte eterna dell’inferno, al fuoco ed al gelo a seconda della vostra condanna.

E tu che, anima ancora attaccata al corpo mortale, ti trovi qui,
tieniti lontana da questi altri che invece sono già morti.”
Ma dopo aver visto che non mi allontanavo,

disse: “Per una altra via, per altri porti giungerai
sulla spiaggia dell’eternità, non puoi passare da qui:
ti deve trasportare una barca ben più leggera di questa.”

E la mia guida gli disse allora: “Caronte, non ti tormentare:
fu deciso così in cielo, là dove si può fare
ciò che si vuole, e non domandare altro.”

Si placarono quindi le lanose guace
del barcaiolo di quella cupa palude,
che intorno agli occhi aveva occhiaie simili al fuoco.

Mentre le anime che aspettavano sulla riva, stanche  e senza alcun riparo,
impallidirono e batterono i denti per la paura
non appena udirono le dure parole di Caronte.

Bestemmiavano Dio ed i loro genitori,
tutta il genere umano, il luogo e il tempo della loro nascita
ed i genitori dei loro genitori, causa prima della loro nascita.

Si raccolsero quindi tutte insieme,
piangendo forte, sulla riva malvagia di quel fiume,
che attende tutti i peccatori, ogni uomo che agisce senza timore di Dio.

Il diavolo Caronte, con i suoi occhi fiammeggianti,
con un solo cenno raccoglie tutte le anime sulla barca;
colpisce con il remo chiunque si attardi a salire.

Come in autunno le foglie cadono dagli alberi
l’una dopo l’altra, fino a ché il ramo
vede giacere in terra tutte le sue spoglie,

allo stesso modo, quei cattivi discendenti di Adamo
si lanciano dalla riva sulla barca di Caronte una ad una,
ad un suo cenno, come l’uccello spinto dal richiamo del cacciatore.

Quindi procedono in barca su quell’acqua scura,
e non fanno in tempo a scendere sull’altra sponda del fiume,
che una nuova schiera di anime si è già radunata sulla prima sponda.

“Figliolo mio”, mi disse in modo cortese il mio maestro,
“quelli che sono morti nel peccato capitale, suscitando l’ira di Dio,
tutti giungono poi qui da ogni parte del mondo;

e sono tutti pronti per oltrepassare il fiume Acheronte,
spinti dalla giustizia divina tanto
che la paura per il loro destino viene tramutata in desiderio.

Da qui non passa mai nessuna anima buona, non dannata;
perciò, se Caronte si lamentò della tua presenza,
puoi ben capire quanto possa essere un buon segno”.

Finito questo discorso, la buia campagna dove ci trovavamo
cominciò a tremare tanto forte che il suo ricordo,
per lo spavento, mi fa ancora gocciolare di sudore.

Da quella terra di pianti si sprigionò un forte vento,
che lampeggiò con una luce rossa,
la quale mi fece perdere coscienza;

e caddi quindi a terra come chi improvvisamente è vinto dal sonno.

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