IL VENTAGLINO di Luigi Pirandello | Testo

Il giardinetto pubblico, meschino e polveroso, in quel torrido pomeriggio d’agosto era quasi deserto, in mezzo alla vasta piazza cinta tutt’intorno da alte case giallicce, assopite nell’afa.
Tuta vi entrò, col bambino in braccio.
Su un sedile in ombra, un vecchietto magro, perduto in un abito grigio d’alpagà, teneva in capo un fazzoletto. Sul fazzoletto, il cappelluccio di paglia ingiallito. Aveva rimboccato diligentemente le maniche sui polsi e leggeva un giornale.
Accanto, sullo stesso sedile, un operajo disoccupato dormiva con la testa tra le braccia, appoggiato di traverso.
Di tanto in tanto, il vecchietto interrompeva la lettura e si voltava a osservare con una certa ambascia il suo vicino, a cui stava per cader dal capo il cappellaccio unto, ingessato. Evidentemente quel cappellaccio, chi sa da quanto tempo così in bilico, cado e non cado, cominciava a esasperarlo: avrebbe voluto rassettarglielo sul capo o buttarglielo giù con una ditata. Sbuffava; poi volgeva un’occhiata ai sedili intorno, chi sa gli avvenisse di scoprirne qualche altro in ombra. Ce n’era uno solo poco discosto; ma vi stava seduta una vecchia grassa, cenciosa, la quale, ogni volta che lui si voltava a guardare, spalancava la bocca sdentata a un formidabile sbadiglio.
Tuta s’appressò sorridente, pian pianino, in punta di piedi. Si pose un dito su le labbra, per segno di far silenzio; poi, adagio adagio, prese con due dita il cappellaccio al dormente e glielo rimise a posto sul capo.
Il vecchio stette a seguir con gli occhi tutti quei movimenti, prima sorpreso, poi aggrondato.
– Co’ la bona grazia, signo’, – gli disse Tuta, ancora sorridente e inchinandosi, come se il servizio lo avesse reso a lui e non all’operajo che dormiva. – Da’ ‘n sordo a sta pôra creatura.
– No! – rimbeccò subito il vecchietto con stizza (chi sa perché), e abbassò gli occhi sul giornale.
– Tiramo a campà! – sospirò Tuta. – Dio pruvede.
E andò a sedere di là, su l’altro sedile, accanto alla vecchia cenciosa, con la quale attaccò subito discorso.
Aveva appena vent’anni; bassotta, formosa, bianchissima di carnagione, coi capelli lucidi, neri, spartiti sul capo, stirati sulla fronte e annodati in fitte treccioline dietro la nuca. Gli occhi furbi le brillavano, quasi aggressivi. Si mordeva di tanto in tanto le labbra. E il nasino all’insù, un po’ storto, le fremeva.
Raccontava alla vecchia la sua sventura. Il marito…
Fin da principio la vecchia le rivolse un’occhiata, che poneva i patti della conversazione, cioè: uno sfogo, sì, era disposta a offrirglielo; ma ingannata, no, non voleva essere, ecco.
– Marito vero?
– Semo sposati co’ la chiesa.
– Ah, be’, co’ la chiesa.
– E ched’è? nun è marito?
– No, fija: nun serve.
– Come nun serve?
– Lo sai, nun serve.

Eh sì, difatti, la vecchia aveva ragione. Non serviva. Da un pezzo, difatti, quell’uomo voleva liberarsi di lei, e per forza l’aveva mandata a Roma, perché cercasse di allogarsi per balia. Ella non voleva venire; capiva ch’era troppo tardi, poiché il bambino aveva già circa sette mesi. Era stata quindici giorni in casa d’un sensale, la cui moglie, per rifarsi delle spese e per aver pagato l’alloggio, aveva osato alla fine di proporle…
– Capischi? A me!
Dalla «collera» le era andato addietro il latte. E ora non ne aveva più, neanche per la sua creatura. La moglie del sensale le aveva preso gli orecchini e s’era tenuto anche il fagottello con cui era venuta dal paese. Da quella mattina era in mezzo alla strada.
– Pe’ davero, sa’!
Tornare al paese non poteva e non voleva: il marito non se la sarebbe ripresa. Che fare, intanto, con quel bambino che le legava le braccia? Certo, non avrebbe trovato neppure da mettersi per serva.
La vecchia l’ascoltava con diffidenza, perché ella diceva quelle cose, come se non ne fosse affatto disperata; anzi, ripetendo spesso quel suo: – Pe’ davero, sa’! – sorrideva.
– Di dove sei? – le domandò la vecchia.
– De Core.
E restò un pezzo come se rivedesse col pensiero il paesello lontano. Poi si scosse; guardò il piccino e disse:
– Addo’ lo lascio? Qua pe’ tera? Pôro cocco mio saporito!
Lo sollevò su le braccia e lo baciò forte forte, più volte.
La vecchia disse:
– L’hai fatto? Te lo piagni.
– Io l’ho fatto? – si rivoltò la giovane. – Be’, l’ho fatto e Dio m’ha castigato. Ma patisce pure lui, pôro innocente! E c’ha fatto, lui? Va’, Dio nun fa le cose giuste. E si nun le fa lui, figùrete noi. Tiramo a campà!
– Mondo, mondo! – sospirò la vecchia, levandosi in piedi a stento.
– È ‘n gran penà! – aggiunse, scrollando il capo, un’altra vecchia asmatica, corpulenta, che passava di lì, appoggiandosi a un bastoncino.
L’altra cavò fuori di tra i cenci un sacchetto sudicio che le pendeva dalla cintola, nascosto sotto la veste, e ne trasse un tozzo di pane.
– Tiè, lo vuoi?
– Sì. Dio te lo paghi, – s’affrettò a risponderle Tuta. – Me lo magno. Ce credi che so’ digiuna da stamattina?
Ne fece due pezzi: uno, più grosso, per sé; cacciò l’altro fra gli esili ditini rosei del bimbo, che non si volevano aprire.
– Pappa, Nino. Bono, sa’! ‘Na sciccheria! Pappa, pappa.

La vecchia se n’andò, strascicando i piedi, insieme con l’altra dal bastoncino.
Il giardinetto s’era già un po’ animato. Il custode annaffiava le piante. Ma neppure alle trombate d’acqua si volevano destare dal sogno in cui parevano assorti – sogno d’una tristezza infinita – quei poveri alberi sorgenti dalle ajuole rade, fiorite di bucce, di gusci d’uovo, di pezzetti di carta, e riparate da stecchi e spuntoni qua e là sconnessi o da un giro di roccia artificiale, in cui s’incavavano i sedili.
Tuta si mise a guardar la vasca bassa, rotonda, che sorgeva in mezzo, la cui acqua verdastra stagnava sotto un velo di polvere, che si rompeva a quando a quando al tonfo di qualche buccia lanciata dalla gente che sedeva attorno.
Già il sole stava per tramontare, e quasi tutti i sedili erano ormai in ombra.
In uno lì accanto venne a sedere una signora su i trent’anni, vestita di bianco. Aveva i capelli rossi, come di rame, arruffati, e il viso lentigginoso. Come se non ne potesse più dal caldo, cercava di scostarsi dalle gambe un ragazzo scontroso, giallo come la cera, vestito alla marinara; e intanto guardava di qua e di là, impaziente, strizzando gli occhi miopi, come se aspettasse qualcuno; e tornava di tratto in tratto a spingere il ragazzo, perché si trovasse più là qualche compagno di giuoco. Ma il ragazzo non si moveva; teneva gli occhi fissi su Tuta che mangiava il pane. Anche Tuta guardava e osservava intenta la signora e quel ragazzo; a un tratto disse:
– Lei, signo’, co’ la bona grazia, si tante vorte je servisse ‘na donna pe’ fa’ er bucato o a mezzo servizio… No? Embè!
Poi, vedendo che il ragazzo malaticcio non staccava gli occhi da lei e non voleva cedere ai ripetuti inviti della madre, lo chiamò a sé:
– Vôi vede er pupetto? Viello a vede, carino, vie’.
Il ragazzo, spinto violentemente dalla madre, s’accostò; guardò un pezzo il bambino con gli occhi invetrati come quelli d’un gatto fustigato; poi gli strappò dalla manina il tozzo di pane. Il bambino si mise a strillare.
– No! pôro pupo! – esclamò Tuta. – J’hai levato er pane? Piagne mo’, vedi? Ha fame… Dàjene armeno un pezzetto.
Alzò gli occhi per chiamare la madre del ragazzo, ma non la vide più sul sedile: parlava là in fondo, concitatamente, con un omaccione barbuto che l’ascoltava disattento, con un curioso sorriso sulle labbra, le mani dietro la schiena e il cappellaccio bianco buttato su la nuca. Il bambino intanto seguitava a strillare.
– Be’, – fece Tuta, – te lo levo io un pezzetto…
Allora anche il ragazzo si mise a strillare. Accorse la madre, a cui Tuta, co’ la bona grazia, spiegò ciò che era accaduto. Il ragazzo stringeva con le due mani al petto il tozzo di pane, senza volerlo cedere, neppure alle esortazioni della madre.
– Lo vuoi davvero? E te lo mangi, Ninnì? – disse la signora rossa. – Non mangia niente, sapete, niente: sono disperata! Magari lo volesse davvero… Sarà un capriccio… Lasciateglielo, per piacere.
– Be’, sì, volentieri, – fece Tuta. – Tiello, cocco, magnalo tu…

Ma il ragazzo corse alla vasca e vi buttò il tozzo di pane.
– Ai pescetti, eh Ninnì? – esclamò allora Tuta, ridendo. – E sta pôra creatura mia ch’è digiuna… Nun ciò latte, nun ciò casa, nun ciò gnente… Pe’ davero, sape’, signo’… Gnente!
La signora aveva fretta di ritornare a quell’uomo che l’aspettava di là: trasse dalla borsetta due soldi e li diede a Tuta.
– Dio te lo paghi, – le disse dietro, questa. – Su, su, sta’ bono, cocco mio: te ce crompo la bobona, sa’! Ci avemo fatto du’ bajocchi cor pane de la vecchia. Zitto, Nino mio! Mo’ semo ricchi…
Il bimbo si quietò. Ella rimase, coi due soldi stretti in una mano, a guardar la gente che già popolava il giardinetto: ragazzi, balie, bambinaje, soldati…
Era un gridio continuo.
Tra le ragazze che saltavano la corda, e i ragazzi che si rincorrevano, e i bambini strillanti in braccio alle balie che chiacchieravano placidamente tra loro, e le bambinaie che facevano all’amore coi soldati, si aggiravano i venditori di lupini, di ciambelle o d’altre golerie.
Gli occhi di Tuta s’accendevano, talvolta, e le labbra le s’aprivano a uno strano sorriso.
Proprio nessuno voleva credere che ella non sapeva più come fare, dove andare? Stentava a crederlo lei stessa. Ma era proprio così. Era entrata là, in quel giardinetto, per cercarvi un po’ d’ombra; vi si tratteneva da circa un’ora; poteva rimanervi fino a sera; e poi? dove passar la notte, con quella creatura in braccio? e il giorno dopo? e l’altro appresso? Non aveva nessuno, nemmeno là al paese, tranne quell’uomo che non voleva più saperne di lei; e, del resto, come tornarci? – Ma allora? Nessuna via di scampo? Pensò a quella vecchia strega che le aveva tolto gli orecchini e il fagotto. Tornare da lei? Il sangue le montò alla testa. Guardò il suo piccino, che s’era addormentato.
– Eh, Nino, ar fiume tutt’e dua? Così…
Sollevò le braccia, come per buttarlo. E lei, appresso. – Ma che, no! – Rialzò il capo e sorrise, guardando la gente che le passava davanti.
Il sole era tramontato, ma il caldo persisteva, soffocante. Tuta si sbottonò il busto alla gola, rimboccò in dentro le due punte, scoprendo un po’ del petto bianchissimo.
– Caldo?
– Se more!
Le stava davanti un vecchietto con due ventagli di carta infissi nel cappello, altri due in mano, aperti, sgargianti, e una cesta al braccio, piena di tant’altri ventaglini alla rinfusa, rossi, celesti, gialli.
– Du’ bajocchi!
– Vattene! – disse Tuta, dando una spallata. – De che so? de carta?
– E di che lo vuoi? de seta?
– Mbè, perché no? – fece Tuta, guardandolo con un sorriso di sfida; poi schiuse la mano in cui teneva i due soldi, e aggiunse: – Ciò questi du’ bajocchi soli. Pe’ ‘n sordo me lo dai?
Il vecchio scosse il capo, dignitosamente.
– Du’ bajocchi? Manco pe’ fallo!
– Be’, mannaggia a tene! Dammelo. Moro de callo. Er pupo dorme… Tiramo a campà. Dio pruvede.
Gli diede i due soldi, prese il ventaglino e, tirandosi più giù la rimboccatura sul petto, cominciò a farsi vento vento vento lì sul seno quasi scoperto, e a ridere e a guardare, spavalda, con gli occhi lucenti, invitanti, aizzosi, i soldati che passavano.