I RICORDI DEL CAPITANO D’ARCE di Giovanni Verga

D’Arce, cullato dal rullìo del bastimento, aveva posato il bicchierino sulla tavola, affissando l’orizzonte mobile attraverso il cristallo del finestrino, quasi vedesse ancora ciò che stava narrando.

No, neanche la punta di un dito. Adesso è storia vecchia… e anche triste!… Non ci siamo neppur detto di amarci… quello che si chiama amare… Mi piaceva assai, ecco. Andavo da per tutto dove sapevo d’incontrarla, alla Villa, al Sannazzaro, al concerto serale dello Châlet. Mi sentivo battere il cuore e inciampavo nelle seggiole appena scorgevo da lontano i nastri rossi del suo cappellino. Mi rassegnavo al cipiglio e all’accoglienza glaciale del Comandante, solo per vedere i begli occhi grigi di lei che mi cercavano nella folla. Essa mi salutava con un sorriso appena accennato: sapete, quel sorriso che vedete soltanto voi, quella fiamma lieve e rapida che illumina a un tratto un bel viso delicato, e vi dice: – Grazie!… – Ma amore, no. Perché c’era di mezzo Alvise Casalengo, mio camerata, mio compagno d’armi e di scuola. – Adesso è andato a finire nella Navigazione Generale, requiescat anche lui! – Ma allora era il mio Pilade, troppo Pilade, ahimé, perché potessi fingere d’ignorare quello che sapevano tutti, sebbene Alvise, com’è naturale, non me ne avesse fatta mai la confidenza. Appunto, giusto per rappresentare la parte di uno che non vuol sapere, filavo anch’io il mio briciolo di corte alla signora Ginevra Silverio, la moglie del mio Comandante, in quei due mesi di licenza che avevo passato a Napoli: una corte modesta e superficiale, da non passare il guanto, quel tanto d’omaggio ch’era indispensabile di tributare alla moglie del mio superiore, bella, elegante, un po’ civetta pure, dicevano; ma civetta con tanta naturalezza e tanta grazia che quasi non se ne accorgeva. Essa s’era lasciata corteggiare anche da me perché non stonassi nel coro, perché tutti le facevano la corte, perch’ero intimo di Alvise, perché le piacevo, infine. Ciò che era venuto in seguito, ciò che mi sembrava a volte vederle balenare negli occhi e sentirmi tremare nella voce… Sapete come avviene… gli ostacoli, i riguardi umani, la diffidenza del marito, la stessa sicurezza leale di Alvise… Tante premure deliziose, un’attrattiva di sacrificio, un profumo soave di frutto proibito, più velenoso di quelli rubati nell’orto coniugale… In conclusione, ditemi un po’, adesso che ne parliamo coi gomiti sulla tovaglia, qual merito ne ho avuto agli occhi di quell’animale che ha piantato amici e spalline per fare il cabotaggio da Palermo a Genova? Il guaio era che il Comandante se la pigliava con l’intero genere umano, causa la pulce che Alvise gli aveva messo nell’orecchio – un pasticcio dell’ordinanza per cui c’erano state fra marito e moglie delle scene spiacevoli, convulsioni, lagrime, il dottore chiamato in fretta e furia, di notte… Insomma quello che non sarebbe avvenuto, se il Comandante, credendo di far meglio, non avesse avuto la cattiva idea di prendere al suo servizio un cretino di nuova leva il quale non capiva nulla. Poi ogni cosa s’era chiarita per il meglio. Alvise, com’è naturale, era rimasto a latere del Comandante, e quella bestia dell’ordinanza, in punizione, sacco e branda, e imbarcarsi subito. I cocci rotti avevano dovuto pagarli gli altri, gli amici di casa, il Comandante stesso, pover’uomo, diventato un orso, un Otello, una bestia feroce. Ti rammenti, Serravalle, quando la signora Ginevra ti si svenne o quasi nelle braccia, ballando in casa Maio? Era tanto delicata, poveretta! E le piaceva tanto il ballo, che suo marito, per la tranquillità dell’alcova coniugale, si rassegnava ad essere di tutte le feste, insieme a lei.
Ma con che viso ci veniva, quell’uomo! Come faceva cascar le braccia ai poveri ufficialetti che gli arrivavano freschi freschi dalla Spezia o da Livorno, e che s’immaginavano di disarmarlo pigliandolo colle buone! Anch’io, purtroppo, ero nella lista dei sospetti. Non so per qual motivo – perché ero più gentile e premuroso degli altri, perché gli ero simpatico, perch’ero amico d’Alvise, fors’anche… Giudizi umani! Il fatto è che nell’animo del Comandante ero un uomo perduto. Tante cose me l’avevano fatto capire: quel diavolo d’uomo aveva un modo di piantarvi gli occhi in faccia per dirvi buongiorno, che v’imbarazzava realmente. E le ingiustizie del superiore, le punizioni e gli arresti che piovevano come gragnuola, l’ordine d’imbarco comunicatomi per telegrafo, quando si sapeva che la squadra sarebbe rimasta a Genova un’altra settimana! Anche lei, povera donna, sembrava consegnata, colla sentinella alla porta, un genovese cane il quale si piantava rispettosamente per mandarmi via, se tentavo di rompere il blocco in un giorno della settimana che non fosse il martedì, il giorno di ricevimento della signora Ginevra, il giorno di tutti e di nessuno. Allorché l’avevo pregata di accordarmi un’entrata di favore, l’avevo vista così imbarazzata, così esitante… Ecco, se avessi voluto permettermi un’indiscrezione col mio amico Alvise, sarebbe stata quella di chiedergli in un orecchio: – Come diavolo fai?… –
Era una povera vittima, quella disgraziata! una schiava legata alla catena corta. Chi l’avrebbe immaginato, di voialtri, quando la vedevi arrivare, col nasino palpitante e la febbre negli occhi, e una voglia di divertirsi fino nelle scarpette che si sarebbero messe a ballare da sole? Ma una paura del marito con tutto ciò! Bastava un’occhiata di lui per farle gelare il sorriso con cui vi si abbandonava nelle braccia, anelante, facendosi vento presto presto, smarrita da un capogiro delizioso. E le carezze timide colle quali cercava di sedurre quel cerbero, l’aria inquieta con cui si abbandonava a certe graziose imprudenze, guardandosi intorno per non esser sorpresa da lui, o gli fissava in volto i begli occhi sorridenti per cercare d’indovinare che vento tirasse, le piccole astuzie, le bugiette dietro il ventaglio, i complotti colle amiche per strappare al marito il permesso di un’ultima polca. Giacché la poveretta sapeva quel che le sarebbero costati poi a quattr’occhi quelle audacie disperate, quei colpi di testa ai quali cedeva con tutto il sangue al viso – delle audacie innocentissime. Noi altri uomini non sappiamo mai quanto coraggio ci vuole a fare certe cose.
Immaginate adesso un uomo che vi tira a bruciapelo l’ordine d’imbarco dopo una di quelle sere… innocente com’ero… e la povera signora Ginevra anch’essa!… Nulla di nulla, vi giuro! Neanche una parola, neanche un dito… Se ce ne fu il pericolo, dopo… un momento solo… la colpa fu tutta sua, di lui!…

D’Arce vuotò d’un fiato il resto del cognac, e posò il bicchierino sulla tavola, stringendosi nelle spalle come un uomo che ha navigato per tutti i mari, ne ha viste di tutte le razze e di tutti i colori, e non si meraviglia più di nulla.
Però non potevo abbandonare Napoli e l’Italia senza andare a salutare la signora Ginevra, tanto più che non avevo potuto vedere neppure il lembo del suo vestito, quand’ero andato a fare la mia visita di congedo, in gran tenuta, fra le dieci e le undici. Lui sì, ce l’avevo trovato il signor Comandante, straordinariamente rabbonito dalla mia partenza, e mi aveva accomiatato con belle parole:
– Faccia buon viaggio, e metta il tempo a profitto. So da buona fonte che li terranno un pezzo imbarcati, e avranno tempo di studiare e di farsi onore. Il mare è una gran scuola e un gran corroborante per la gioventù -.
Grazie tante! Ma il buon viaggio volevo che me lo desse lei, la signora Ginevra. Non poteva rassegnarmi a tutte quelle belle cose che mi aveva detto suo marito, senza vederla un’ultima volta, e sentire anche quel che ne pensava lei. La mia stessa innocenza mi dava ai miei occhi una specie di salvacondotto per andare a trovarla. Per altro m’ero proposto di essere prudente ed audace come un vero innamorato. E contavo sul gran da fare che c’era al Comando, appunto per quella benedetta partenza. La sera, appena sbirciai il mio superiore che svoltava l’angolo della piazza… – due ore di guardia col naso incollato ai vetri del Caffè d’Europa, amici miei, temendo ogni momento di veder capitare Alvise, che volentieri avrei voluto sapere a casa, magari agli arresti, magari colla febbre. – Vedevo il mio amico in ogni soprabito gallonato che incontravo, lungo la strada, rasente al muro, e il cuore mi batteva un po’… Quando fui poi in via Partenope… Il cerbero che custodiva la porta della signora Ginevra mi lasciò passare senza alzare gli occhi dal Pungolo, o credette forse che venissi per un affare di servizio, o si lasciò ingannare dalla somiglianza dell’uniforme… prendendomi per quell’altro… Sì in quel momento mi faceva un certo effetto di esser scambiato con un altro. Pensavo ad Alvise, che andava e veniva senza tante difficoltà, e che sarebbe rimasto a Napoli!…
Entrava appunto un bel chiaro di luna dai finestroni colorati, e passava per la strada il ritornello della canzone in voga che solevano suonare allo Châlet. Tutte le piccole seduzioni che vi formano le grandi, sapete!… Avevo il cuore alla gola nel bussare all’uscio della signora Ginevra, forse perché ella stava al terzo piano… o perch’ero giovanissimo allora… Il fatto è che mi sentii penetrare lo squillo acuto e vibrante del campanello sino al cuore, come un sussulto, come una puntura, direi, ripensando ad Alvise… Al mio superiore, no, non ci pensai, altro che per almanaccare un pretesto, pel caso che mi avesse fatto trovare un marinaio comandato di sentinella all’uscio della moglie anche a quell’ora…
Ma invece venne ad aprire Gioconda, quella bella giovane che aveva il viso come il nome, vi rammentate? Essa mi aveva visto spesso venire, nei bei giorni in cui non avevo ancora perso la stima del Comandante, e mi accolse con un graziosissimo sorriso: il medesimo sorriso della sua padrona, indulgente e grato verso le debolezze umane, il sorriso che comprendeva e perdonava, e voleva farsi perdonare ciò che doveva dirmi: – La signora era un po’ sofferente, stava già per andare a letto…
Era scritto, vi dico! Mentre mi rassegnavo a tornarmene via, triste come la morte, e indugiavo a scusarmi per l’ora indebita, adducendo la partenza immediata…, l’assenza lunga, e questo e quell’altro… – intanto le vedevo negli occhi una gran simpatia, alla buona giovane. – In quel momento il campanello elettrico squillò di nuovo, premuroso e carezzevole, uno squillo che veniva dalle stanze interne stavolta, e diceva: Sì! sì! sì!…
– Se vuol passare un momento in sala, farò a ogni modo l’imbasciata… –
Ho anch’io adesso i galloni di Comandante, e molti anni di più sulle spalle, ma ancora, vedete, mi sembra di sentirmi battere il cuore nel soprabito attillato di guardiamarina, rammentando quell’istante in cui vidi comparire sull’uscio del salotto lei, tutta sorriso, nella bocca, negli occhi, nel fruscìo del vestito, quel sorriso carezzevole e buono con cui accoglieva i suoi amici e che ho ancora dinanzi agli occhi, quando vado a pregare sulla sua tomba, poveretta!

D’Arce riempì di nuovo il bicchiere, sforzandosi di mostrarsi disinvolto, ripreso, suo malgrado, dalla commozione di quei ricordi.
La vedo ancora, seduta su quel canapè basso e largo come un letto. Aveva delle calze di seta nera, delle calze terribili, amici miei, sotto quel vestito bianco, tanto che ella se ne accorse, e ritirò adagio adagio i piedini, facendosi rossa. Proprio una bambina, vi dico! civetta, innocente nella sua civetteria come l’aveva fatta sua madre, e con una paura del marito, in quel momento, che le faceva tendere l’orecchio e troncare il discorso di tratto in tratto. Anch’io mi sentivo assai sconvolto… Allora scappammo a parlare tutti e due in una volta, come cavalli spaventati, battendo la campagna, con una vivacità che voleva sembrar sincera. – Io non avevo voluto partire senza andare a salutarla. – Essa non aveva voluto lasciarmi partire senza dirmi addio. – Partire, lasciarsi… – In fondo a ogni parola c’era sempre quella nota, sempre quel tono triste, in sordina, in note tenute, in tutte le note, all’infuori della tua, mio povero Alvise, che dormivi lealmente fra i due guanciali della tua felicità o piuttosto che perdevi al Circolo, in quel momento stesso, lieto del proverbio che lusingava il tuo amor proprio. – E le nostre parole dicevan tutt’altro, dicevano tutt’al più di viaggi e paesi lontani, di orizzonti sconosciuti, o delle memorie che si portano via, e dei luoghi cari che non si vorrebbero lasciare… – Felice lei che andrà così lontano, per tanto mare, per tanto mondo! Come vorrei volare anch’io, come vorrei venire! – Felice lei piuttosto, che rimane in questa città di cui il cuore porta via tanti ricordi… in questo nido di cui gli occhi non si saziano di baciare ogni angolo e ogni cosa!… – Questo dicevano i sorrisi vaghi, gli occhi umidi, erranti per quel salotto di cui tu conosci ogni gingillo, di cui ogni gingillo ha contato le tue ore felici, fortunato Alvise! – voi! – voi! – voi! – Ma non una parola d’amore, torno a dirvi. S’indovinava, era sottinteso, in ogni sillaba, in ogni frase, discorrendo di amici e di conoscenti… anche di Alvise – ella per provarmi ch’era lontano, tanto lontano dal suo salotto e dal suo pensiero! – io per rallegrarmi della sua assenza – per rallegrarcene intimamente tutt’e due, come eravamo lieti dell’assenza del Comandante… il quale però avrebbe potuto ascoltare tutto ciò che si diceva, lei ed io, senza dover snudare il brando, senza che l’angelo custode della sua casa avesse avuto motivo di tapparsi le orecchie.
In quella squillò di nuovo il campanello dell’anticamera, forte, improvviso, minaccioso: una scampanellata da padrone, di quelle scampanellate che vi pigliano pei capelli, e vi fanno saltare in aria. Ella impallidì visibilmente, e s’alzò di botto, come fuori di sé, agitando istintivamente la mano in un gesto vago. E tutto a un tratto mi si abbandonò fra le braccia, quasi stesse per svenire, cogli occhi smarriti, il seno palpitante… balbettando: – lui! lui! –
Proprio lui che l’aveva voluto, non è vero? Una povera donna il più delle volte si butta nel precipizio pel timore dell’abisso! Non ascoltava più, non capiva più che così facendo si accusava della colpa di cui eravamo innocenti… Innocenti dinanzi agli uomini e dinanzi a Dio! Essa era caduta come una morta sul canapè, fissando gli occhi spaventati sull’uscio, quasi aspettando di veder comparire di momento in momento il suo giudice e il suo giustiziere… Aspettai anch’io, in piedi, abbottonandomi macchinalmente l’uniforme, come si aspetta in un duello la pistolettata dell’avversario… cinque minuti… dieci… un’eternità. Nulla, non era stato nulla. La cameriera venne a dire poco dopo che eran venuti a cercare il padrone per un affare di servizio.
Accidenti al servizio! La povera signora mi sfuggì di mano come un’anguilla, e non volle più saperne di ripigliare il duetto, proprio quando avevo tante altre cose da dirle, quando il suo viso pallido e i suoi occhi stralunati mi davano le vertigini, mentre respingevami colle mani tremanti, balbettando: – Andatevene! andatevene!… –
Soltanto mi dava del voi; mi dava le mani tremanti e gli occhi che si smarrivano nei miei, bramosi e spaventati…
Nient’altro, amici miei… Una donna che ha paura, capite… La paura me l’aveva data un momento e la paura me la ritolse.