Parafrasi canto 23 (XXIII) del poema Orlando Furioso

Parafrasi del Canto 23 (XXIII) del poema Orlando Furioso – Prima parte dell’episodio che racconta la follia di Orlando Il paladino giunge sui luoghi dove Medoro ed Angelica hanno dato sfogo alla loro passione amororosa ed è travolto dalla follia: abbandona il cavallo Brigliadoro, la sua armatura, le sue armi e le sue vesti ed inizia a compiere strage di chiunque e qualunque cosa incontri sul suo tragitto.

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L’imprevedibile percorso che prese il cavallo
di Mandricardo per il bosco privo di sentieri
fece si che Orlando vagò per due giorni a vuoto,
né lo trovò, né ne ebbe traccia.
Arrivò a un ruscello che sembrava cristallo,
sulle cui sponde fioriva un bel prato
dei colori della natura dipinto,
e variamente ornato da molti bei cespugli.

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La calda ora del mezzogiorno rendeva gradita l’ombra
agli animali e al pastore nudo;
così che neppure Orlando ebbe alcun esitazione,
avendo la corazza, l’elmo e lo scudo.
Qui Orlando entrò per riposare in mezzo ai cespugli
e vi trovò una dimora angosciosa, funesta
e più di quanto si possa dire,
quell’infelice e sfortunato giorno.

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Girando intorno vide incisi con scritte
molti arberelli sulla riva dell’ ombroso fiume.
Non appena ebbe gli occhi fermi e fissi con maggior attenzione
fu sicuro che furono scritti dalla dea del suo cuore.
Questo era uno di quei luoghi già descritti,
dove spesso Medoro veniva
dalla vicina casa del pastore
con la bella Angelica.

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Vede Angelica e Medoro in diversi modi,
intrecciarti insieme ed in diversi luoghi.
Tante sono le lettere, tanti sono i chiodi
con i quali Cupido gli ferisce e punge il cuore.
Va a cercare in mille modi con il pensiero
di non credere quello a cui, suo malgrado, crede:
si sforza di credere che sia un’ altra Angelica
ad aver scritto il suo nome sul quella corteccia.

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Poi dice: “Io conosco la grafia di queste lettere:
di queste (lettere) ne ho viste e ne ho lette tante.
Potrebbe essersi inventata questo Medoro:
forse mi ha dato questo soprannome”.
Con tali opinioni remote,
continuò ad assillare se stesso, ponendo
il suo malcontento nella speranza
che seppe procurare a se stesso.

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Ma più si riaccende e si rinnova
il crudele sospetto più cerca di dimenticarlo:
come il disattento uccello che finisce
in una ragnatela o sui rami invischiati,
quanto più batte le ali e più prova
a liberarsi, più si lega stretto.
Orlando giunge dove si incurva la montagna
come un arco (formando una grotta) sulla fonte cristallina

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Avevano ornato l’ingresso (di quella grotta)
edere e viti rampicanti con i loro fusti contorti.
Nei giorni più caldi, qui erano soliti
stare abbracciati i due felici amanti.
C’erano i loro nomi dentro ed intorno (alla grotta)
più che nei luoghi circostanti,
scritti alcuni con il carbone ed altri con gesso
e altri erano impressi con punte di coltelli.

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Qui scese il triste cavaliere;
e vide sull’ entrata della grotta
tante parole, che erano state scritte dalla mano di
Medoro, e sembravano esser state scritte proprio in quel momento.
Per esprimere il grande piacere che provò (con Angelica) nella grotta,
aveva composto questa iscrizione in versi.
Io penso che fosse poeticamente elaborata in arabo (lingua di Medoro),
ed era tale il senso nella nostra lingua:

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“Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
grotta gradevole per la fresca ombra,
dove la bella Angelica nacque
di Galafron, è stata amata vanamente da molti,
spesso nelle mie braccia giacque nuda;
dei piaceri che qui mi sono stati dati,
io povero Medoro non posso
ricompensarvi in altro modo, se non lodandovi in ogni momento:

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e di pregare ogni signore che vi ha amato,
e cavalieri e damigelle ed ogni
persona, del posto o forestiere,
che capiti qui intenzionalmente o per caso;
che all’erba, all’ombra, all’ingresso (delle grotta), al fiume e alle piante
dica: che sole e luna vi siano favorevoli,
e vi protegga il coro delle ninfe
dai danni che potrebbero recare le greggi condotte lì da qualche pastore.”

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Era scritto in arabo, che il cavaliere
capiva bene come il latino:
tra molte lingue che conosceva,
il paladino sapeva benissimo quella;
e gli fece evitare più volte danni e scontri,
quando si trovò tra il popolo saraceno:
ma non si rallegri, se altre volte (la conoscenza dell’arabo) gli fu propizia;
perché ora gli arreca un danno tale da cancellare tutti i vantaggi ottenuti.

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Lesse tre, quattro, sei volte la triste poesia
l’infelice, ed anche cercando invano (di immaginare)
che non ci fosse ciò che vi era scritta;
ma gli risultava sempre più chiaro e facile da comprendere:
ed ogni volta (che leggeva) si sentiva in mezzo al petto afflitto
stringere il cuore con mano gelida.
Rimase lì con gli occhi e con il pensiero
rivolti al sasso, impietrito.

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Fu allora che inizio ad impazzire,
così che in preda al dolore si abbandona completamente.
Credete a chi lo ha provato su se stesso,
che questa, d’amore, è la sofferenza che fa passare tutte le altre.
Gli era caduto il mento sopra il petto (testa bassa),
la fronte era priva di rughe ed era bassa;
non poté aver e (che il dolore l’occupò tanto)
voce per lamentarsi o lacrime per piangere.

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Rimase dentro l’impetuoso dolore,
che voleva uscire con troppa fretta.
Così vediamo restare l’acqua nel vaso,
che abbia largo il ventre e stretta la bocca;
così ché, capovolgendo il vaso,
l liquido che vorrebbe uscire, tanto velocemente si riversa,
e si ingorga nella stretta apertura,
uscendo così goccia a goccia, a fatica.

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Poi ritorna abbastanza in sé, e pensa se
la cosa potrebbe essere non vera:
che qualcuno voglia così infamare il nome
della sua donna, e crede e spera e brama,
oppure (che qualcuno voglia) gravarlo di un così insopportabile peso
di gelosia, da farlo morire;
e abbia, chiunque sia stato,
imitato molto bene la sua calligrafia (di Angelica).

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Con una così debole speranza,
gli si rianimarono gli spiriti vitali;
quindi salì in groppa al suo Brigliadoro
quando il sole stava già lasciando il posto a sua sorella luna (tramonto).
Non va molto avanti, che dagli alti comignoli
dei tetti vede uscire del fumo,
sente cani abbaiare e una mandria muggire:
va fino alla villa e prende posto.

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Languido smonta (da cavallo), e lascia Brigliadoro
a un abile garzone perché ne abbia cura:
si fa disarmare da uno, gli sperono d’oro un altro
gli leva, e si fa lucidare l’armatura da un altro ancora.
Era questa la casa dove Medoro
visse quando fu ferito, e dove ebbe grande fortuna.
Orlando chiede solo da dormire e niente per cena,
è sazio di dolore e non di altro cibo.

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Quanto più cerca di trovare tranquillità,
tanto più prova travaglio e dolore;
vede piena della odiata poesia (quella scritta da Medoro) ogni parete
ogni finestra, ogni porta.
Vorrebbe chiedere a riguardo ma poi tiene le labbra ferme (sta zitto);
perché teme di rendere (a se stesso) troppo evidente,
troppo chiara la cosa che
cerca di dimenticare (offuscare), per provare meno dolore.

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Ingannare se stesso non gli giova;
perché senza domandare (dell’accaduto) c’è chi ne parla.
Il pastore, che lo vede così oppresso
dalla sua tristezza, e vorrebbe alleviarla,
iniziò a raccontargli la storia che conosceva bene; raccontava spesso
dei due amanti a chi voleva ascoltare
una storia molto dilettevole,
e così, senza rispetto, cominciò a raccontare

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come egli, pregato dalla bella Angelica,
aveva portato in casa sua Medoro,
ferito gravemente; e che ella (Angelica)
curò la ferita ed in pochi giorni la guarì:
ma lei, con una piaga ancora maggiore di quella, nel cuore
fu ferita da Amore (cupido); e da una piccola scintilla
si accese tanto del così cocente fuoco,
che la faceva ardere tutta, e non trovava pace:

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e senza aver riguardo che ella (Angelica) fosse
figlia del più grande re che abbia mai avuto l’oriente,
sospinta da un grandissimo amore fu portata
a sposare Medoro, umile soldato.
La conclusione della storia fu
che il pastore mostrò ad Orlando il gioiello,
che al momento della partenza, come ricompensa
della buona ospitalità, gli diede Angelica.

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Questa conclusione fu la scure
che gli levò la testa dal collo in un colpo solo,
una volta che delle innumerevoli bastonate
fu sazio il carnefice Amore.
Orlando si sforza di nascondere il dolore ; e tuttavia
quello è talmente violento che difficilmente lo può tenere nascosto:
attraverso le lacrime degli occhi ed i sospiri della bocca
è inevitabile che esploda.
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Dopo che poté dar libero sfogo al dolore
(perché resta solo senza doversi preoccupare di nessun altro),
dagli occhi, rigando le guance
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e piange, e cammina, girandosi spesso,
di qua e di là esplorando il letto:
e più duro che un sasso, e più pungente
dell’ortica se lo sente.

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In tanto gli viene in mente l’atroce dubbio
che nello stesso letto in cui egli (Orlando) giaceva,
l’ingrata donna (Angelica) a coricare
doveva essersi più volte venuta insieme al suo amante.
Inevitabilmente ha in odio quel letto,
né si alza dal letto meno velocemente
del contadino che si leva dall’erba su cui si era steso
per riposarsi, per aver visto vicino a sé un serpente.
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Quel letto, quella casa, quel pastore
immediatamente gli viene in tanto odio,
che senza aspettare che sorga la luna o che l’alba,
che precede il nuovo giorno, nasca,
prende le armi e il destriero, ed esce fuori
in mezzo al bosco, dove è più fitto e scuro l’intrico di rami;
e poi quando si accorge di essere solo (che nessuno lo segue),
con grida e urla apre le porte al dolore.

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Non smette mai di gridare e di urlare;
non si dà mai pace né la notte né il giorno seguente.
Fugge da città e da borghi, e nei luoghi inabitati
sul terreno duro, all’aperto, giace.
Si meraviglia che nella propria testa ci possa essere
una sorgente così inesauribile di pianto,
e come i sospiri possano essere mai così tanti;
e spesso si dice nel pianto:

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“Queste non sono più lacrime, che fuoriescono
dagli occhi con flusso così abbondante.
Non bastarono le lacrime al dolore:
finirono quando il dolore si era manifestato solo per metà.
Dal dolore della gelosia ora l’umor vitae
fugge attraverso quella via a cui gli occhi conducono;
ed e’ quello che ne esce ora, quello che porterà via con sé insieme
il dolore e la vita sul punto di morte.

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Questi, che manifestano il mio tormeno,
non sono sospiri, né i sospiri sono così.
I sospiri ogni tanto si interrompono; io non sento mai
il mio petto ridurre il sospirare per la pena.
L’amore che mi arde il cuore crea questi sospiri
mentre agita attorno al fuoco le proprie ali.
Amore, con quale miracolo riesci
a tenerlo (il cuore) nel fuoco senza mai consumarlo?

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Non sono io, non sono io quello che sembro in volto:
quello che era Orlando è morto e sotterrato;
la sua ingrata donna l’ha ucciso:
si, mancandogli di fedeltà gli ha fatto la guerra.
Io sono il suo spirito dal suo corpo diviso,
che vaga tormentandosi in questo inferno,
in modo checon il proprio fantasma, che e’ tutto quello che gli resta, ammonisca con l’esempio colui che affida la sua speranza nell’Amore.”

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Tutta la notte il conte vago per il bosco;
ed al sorgere del sole
il suo destino lo riportò vicino al fiume
dove Medoro incise l’iscrizione.
Vedere le parole che testimoniavano il suo disonore incise nel monte,
lo accese, così che in lui non restò nulla
che non fosse odio, rabbia, ira o furia;
non resistette più e sguainò la spada.

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Tagliò l’incisione e il sasso, e fino al cielo
fece volare le piccole schegge.
Infelice sia ogni grotta e ogni tronco
in cui si leggono i nomi di Medoro ed Angelica!
Furono così ridotte (le piante) quel giorno, che né ombra né refrigerio daranno più al pastore né al suo gregge:
e il fiume, così chiaro e puro,
non fu al riparo da un ira così grande;

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poiché i rami, i tronchi, i sassi e le zolle di terra
Orlando non smise di gettare nelle belle onde,
fino a che dalla superficie fino al fondo, le rese torbide
così tanto che non saranno mai più così limpide e pure.
E alla fine, stanco e sudato,
dal momento che la forza fisica, esaurita, non era più in grado di servire
allo sdegno, al pesante odio e all’ardente ira,
si abbandona sul prato e sospira al cielo.

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Afflitto e stanco cadde infine nell’erba
e fissò gli occhi al cielo senza dire parola alcuna.
Rimane così, senza mangiare e senza dormire
per tre giorni.
Il suo dolore non smise di crescere,
finché non l’ebbe fatto impazzire.
Il quarto giorno, sconvolto dalla pazzia violenta,
si tolse di dosso tutta l’armatura.

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Qui resta l’elmo e là resta lo scudo,
lontano gli arnesi (corredo dell’armatura), e più lontano ancora la corazza: tutte le sue armi, concludendo,
avevano ognuna diversa collocazione per il bosco.
E poi si squarciò i vestiti, e rimasero nudi
il peloso addome e la schiena;
e iniziò la grande pazzia, così orrenda,
che nessuno sentirà mai parlare di una (follia) più orrenda di questa.

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Gli scaturì così tanta rabbia e così tanto furore
che tutte le sue facoltà sensitive furono alterate.
Non gli passo per la testa di prendere la spada,
che tante incredibili avventure aveva passato, credo.
Ma tanto né quella, né una scure, né una bipenne (scure a due lame)
erano necessarie alla sua immensa forza.
Qui fece davvero alcune tra le sue imprese più straordinarie,
sradicò un grande pino con un solo scrollone:

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e ne abbatté, dopo il primo, molti altri ancora
come se fossero state piante dal fusto tenero;
e fece la stessa cosa con querce, vecchi olmi,
faggi e abeti.
Come un uccellatore che per ripulire
il campo, dove mettere le reti,
estirpa le erbaccie, i ramoscelli e le ortiche,
Orlando faceva con le querce e con le altre piante secolari del bosco.

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I pastori che avevano sentito il gran chiasso,
lasciando il gregge sparso per la foresta,
da ogni luogo, di corsa
vanno a vedere che cosa fosse quel rumore.
Ma sono giunto a quel punto che se lo oltrepasso,
la mia storia vi potrebbe essere dannosa;
e io la voglio rinviare ad un altro canto
prima che vi possa infastidire per la sua lunghezza.