COLLOQUII COI PERSONAGGI – I di Luigi Pirandello | Testo

Avevo affisso alla porta del mio studio un cartellino con questo

AVVISO

Sospese da oggi le udienze a tutti i personaggi, uomini e donne, d’ogni ceto, d’ogni età, d’ogni professione, che hanno fatto domanda e presentato titoli per essere ammessi in qualche romanzo o novella.
N.B. Domande e titoli sono a disposizione di quei signori personaggi che, non vergognandosi d’esporre in un momento come questo la miseria dei loro casi particolari, vorranno rivolgersi ad altri scrittori, se pure ne troveranno.

Mi toccò la mattina appresso di sostenere un’aspra discussione con uno dei più petulanti, che da circa un anno mi s’era attaccato alle costole per persuadermi a trarre da lui e dalle sue avventure argomento per un romanzo che sarebbe riuscito – a suo credere – un capolavoro.
Lo trovai, quella mattina, innanzi alla porta dello studio, che s’aiutava con gli occhiali e in punta di piedi – piccolo e mezzo cieco com’era – a decifrare l’avviso.
In qualità di personaggio, cioè di creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori delle transitorie contingenze del tempo, egli non aveva l’obbligo, lo so, di conoscere in quale orrendo e miserando scompiglio si trovasse in quei giorni l’Europa. S’era perciò arrestato alle parole dell’avviso: «in un momento come questo», e pretendeva da me una spiegazione.
Erano ancora i giorni di torbida agonia che precedettero la dichiarazione della nostra guerra all’Austria, ed entravo di furia nello studio con un fascio di giornali, ansioso di leggere le ultime notizie. Mi si parò davanti:
– Scusi… permette?
– Non permetto un corno! – gli gridai. – Mi si levi dai piedi! Ha letto l’avviso?
– Sissignore, appunto per questo… Se mi volesse spiegare… – Non ho nulla da spiegarle! Non ho più tempo da perdere con lei! Via! Vuole le sue carte, i suoi documenti? Venga, entri, prenda e se ne vada!
– Sissignore… ecco, ma se volesse dirmi almeno che cosa è accaduto?…
Sperando di farlo schizzar per aria, polvere, come per una cannonata a bruciapelo, gli urlai in faccia:
– La guerra!
Rimase lì impassibile, come se non gli avessi detto nulla.
– La guerra? Che guerra?
Me lo tolsi davanti con uno strappo violento; entrai nello studio, sbattendogli la porta in faccia; e, buttandomi sul divano, corsi con gli occhi alle ultime notizie dei giornali, se finalmente la dichiarazione di guerra era avvenuta, se gli ambasciatori d’Austria e di Germania erano partiti da Roma, se c’erano già i primi fatti d’armi per mare o alla frontiera. Nulla! ancora nulla! E fremevo.
«Ma come? ma come?», dicevo. «Che s’aspetta? E che aspettano ancora questi signori ambasciatori, dopo le sedute solenni della Camera e del Senato e il delirio di tutto un popolo che da tanti giorni grida per le vie di Roma guerra, guerra! Son diventati sordi? ciechi? L’albagia tedesca, la tracotanza austriaca dove sono più? Quattro, cinque volte, nei giornali del mattino, nei giornali del pomeriggio, in quelli della sera s’è loro annunziato che i treni speciali sono pronti per essi. Niente. Sordi. Ciechi. E intanto a Trieste, a Fiume, a Pola, in tutto il Trentino si fa scempio e strazio dei nostri fratelli che ci aspettano; e noi li abbiamo lasciati partire protetti e tranquilli, i signori sudditi austriaci e tedeschi!»
Mentre così pensavo, fremendo, m’avvenne di levar gli occhi dal giornale, e che vidi? lui, quel petulante, quell’insoffribile personaggio, ch’era entrato non so come, non so donde, e se ne stava pacificamente seduto su una poltroncina presso una delle finestre che guardano sul mio giardinetto, tutto ridente e squillante, in quei giorni di maggio, di rose gialle, di rose bianche, di rose rosse e di garofani e di geranii.
Guardava fuori, con faccia beata, i cipressi e i pini di Villa Torlonia dirimpetto, dorati dal sole, abbagliati sotto l’intenso azzurro del cielo e stava a udire con delizia evidente il fitto cinguettio degli uccellini felicemente nati con la stagione e il chioccolio della fontanella del mio giardinetto.

La sua vista inopinata, quel suo atteggiamento di delizia mi suscitarono una rabbia che non so dire: una rabbia che avrebbe dovuto lanciarmi addosso a lui, e invece restava lì come schiacciata dal peso d’uno stupore, ch’era anche nausea e avvilimento. Gli vidi, a un tratto, voltare verso me quella beata faccia. Con l’orecchio intento e una mano appena levata:
– Sente? – mi disse, – sente che bel trillo? È un merlo, questo, sicuramente.
Afferrai i giornali stesi su le ginocchia con l’impeto di piombargli con essi sopra ad accopparlo, urlandogli nel furore tutte le ingiurie, tutti i vituperii che mi venivano in bocca. E poi? Sarebbe stato inutile. Scaraventai a terra i giornali, puntai i gomiti su le ginocchia, mi presi la testa tra le mani.
Poco dopo, con placida voce, quegli ricominciò a dire:
– E che c’entro io, scusi, se il merlo canta? se le rose ridono nel suo giardinetto? Corra a mettere la museruola a quel merlo, se le riesce, e a strappar queste rose! Non credo, sa, che se la lasceranno mettere la museruola gli uccellini; e tutte le rose di questo maggio da tutti i giardini, non le sarà mica facile strapparle… Mi vuol far saltare dalla finestra? Non mi farò male; e le rientrerò nello studio dall’altra. Che vuole che importi a me, agli uccellini, alle rose, alla fontanella della sua guerra? Cacci il merlo da quell’acacia; se ne volerà nel giardino accanto, su un altro albero, e seguiterà di lì a cantare tranquillo e felice. Noi non sappiamo di guerre, caro signore. E se lei volesse darmi ascolto e dare un calcio a tutti codesti giornali, creda che poi se ne loderebbe. Perché son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero, perché su le stesse tracce, sempre, la primavera, guardi: tre rose più, due rose meno, è sempre la stessa; e gli uomini hanno bisogno di dormire e di mangiare, di piangere e di ridere, d’uccidere e d’amare: piangere su le risa di jeri, amare sopra i morti d’oggi. Retorica, è vero? Ma per forza, poiché lei è così, e crede per ora ingenuamente che tutto, per il fatto della guerra, debba cambiare. Che vuole che cambi? Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono. Passano. Passano, con gli individui che non sono riusciti a superarli. La vita resta, con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca, che fa pena. La terra è dura, e la vita è di terra. Un cataclisma, una catastrofe, guerre, terremoti la scacciano da un punto; vi ritorna poco dopo, uguale, come se nulla fosse stato. Perché la vita, così dura com’è, così di terra com’è, vuole se stessa lì e non altrove, ancora e sempre uguale. E vorrà anche il cielo, per tante cose; ma, sopra tutto, creda, per dare respiro a questa terra. Lei si agita, in questo momento; freme; s’arrabbia contro chi non sente come lei, contro chi non si muove; vorrebbe gridare, far capaci tutti gli altri del suo stesso sentimento. Ma se gli altri non lo hanno? Lei s’immaginerà che tutto sia perduto; e sarà magari tutto perduto per lei… Fino a quando? Lei non vorrà mica morire per questo. Guardi: l’aria lei la respira, e non glielo dice che lei vive, quando la respira; questo cinguettio d’uccelli nati ora col maggio in questi giardini fioriti, lei l’ode, e non glielo dicono questi uccelli e questi giardini che lei vive, quando li ode cinguettare e ne aspira i profumi. Una miseria di pensiero lo assorbe. Di tanta vita ch’entra in lei per i sensi aperti, non fa conto. E poi si lagna; di che? di quella miseria di pensiero, di quel desiderio insoddisfatto, d’un caso contrario già passato. E intanto tutto il bene della vita le sfugge! Ma non è vero. Sfugge alla sua coscienza, non a quel profondo oscuro se stesso, dove – senza saperlo – lei vive davvero e assapora il gusto della vita, ineffabile, che è quello che la tiene e che le fa accettare tutte le contrarietà, tutte le condizioni che il pensiero stima più misere e intollerabili. Questo veramente è ciò che conta. Immagini che tutto questo scompiglio sia finito, compiuta la strage. Si farà la storia, domani, dei guadagni e delle perdite, delle vittorie e delle sconfitte. Speriamo che la giustizia trionfi… Ma se non dovesse trionfare? Trionferà di qui a un altro secolo… La storia ha larghi polmoni, e un arresto di respiro è cosa momentanea. Può anche darsi, del resto, che sembri un’altra, di qui a un altro secolo, la giustizia. Non c’è da fidarsi; e non è questo, creda, che importa. Ciò che realmente importa è qualche cosa d’infinitamente più piccolo e d’infinitamente più grande: un pianto, un riso, a cui lei, o se non lei qualche altro, avrà saputo dar vita fuori del tempo, cioè superando la realtà transitoria di questa sua passione d’oggi; un pianto, un riso, non importa se di questa o d’altra guerra, poiché tutte le guerre su per giù son le stesse; e quel pianto sarà uno, quel riso sarà uno.

Così io lo udii parlare a lungo, con una smania che mi si esasperava di punto in punto, quanto più, parendomi in fondo che dicesse giusto, mi sforzavo di frenarmi Non avrei voluto ascoltarlo, e lo ascoltai invece fino all’ultimo. Quando scattai in piedi, sdegnato, amareggiato, naturalmente non me lo vidi più davanti. Come una tenebra d’angoscia m’aveva rioccupato il cervello: ero ricaduto in preda alla mia cocente passione.
Mio figlio doveva partire in quei giorni per la frontiera. Della sua partenza imminente volevo e non riuscivo a sentirmi orgoglioso. Egli avrebbe potuto, come tanti altri della sua età e della sua condizione, sottrarsi almeno per il momento ai suoi obblighi: s’era invece presentato subito, volontario, all’appello. Lo guardavo avvilito e quasi mortificato. Il ribrezzo più che trentenne di un’alleanza odiosa fomentato ora dallo sdegno, dall’orrore delle atrocità commesse dai nostri alleati di jeri, aveva per dieci mesi roso il freno d’una disumana pazienza. E ora che questo freno finalmente accennava a rompersi, ora che il ribrezzo soffocato per trenta e più anni stava per prorompere e avventarsi, ecco, non io, non noi, quanti siamo di questa sciagurata generazione a cui è toccata l’onta della pazienza, l’ignominia di quell’alleanza col nemico irreconciliabile, non noi dovevamo correre alla frontiera, ma i figli nostri, nei quali forse il ribrezzo non fremeva e l’odio non ribolliva come in noi. Prima i nostri padri, e non noi! ora, i nostri figli, e non noi! Dovevo restare a casa, io, e veder partire mio figlio.
Fuori di questa passione, fuori di quest’angoscia, non potevo per il momento veder più nulla. Dovevo consumare in me stesso un travaglio violento: l’ira, lo sdegno acerbo per quanto avveniva, per chi non poteva, non sapeva o non voleva fare e si dava grottesche arie di fare e avrebbe meritato in risposta un augurio di sconfitta, se le sorti nostre non fossero state sciaguratamente unite. Dovevo consumare dentro me l’ansia senza requie per il mio figliuolo, che mentre io qua mi sarei straziato invano e sarei stato costretto purtroppo ad attendere e a soddisfare a tutti i piccoli materiali bisogni della vita, avrebbe esposta la sua lassù; e ogni momento, che per me sarebbe passato così, poteva essere per lui il supremo; e sarebbe toccato a me, allora, dopo, di seguitarla a vivere, questa atrocissima vita.
Nell’ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e m’invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo più solo. Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.
Con chi potevo io veramente comunicare, se non con loro, in un momento come quello? E mi accostai a quell’angolo, e mi forzai a discernerle a una a una, quelle ombre nate dalla mia passione, per mettermi a parlare pian piano con esse.