Parafrasi canto 20 (XX) dell’Inferno di Dante

Parafrasi del Canto XX dell’Inferno – Dante e Virgilio attraversano la quarta bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti gli indovini, con la testa girata all’indietro e costretti a camminare a ritroso. Virgilio racconta al poeta le origini della città di Mantova.

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Una nuova pena infernale mi conviene adesso descrivere
e trattare come argomento nel ventesimo canto della prima cantica,
dedicata a coloro che stanno nelle profondità dell’Inferno.

Io erò già concentrato con tutto me stesso
nel guardare giù nel fondo del vallone,
bagnato dalle lacrime dei dannati vinti dal dolore;

e vidi venire avanti attraverso quel vallone circolare
della gente, silenziosa ed in lacrime, con passi lenti
come quelli che si fanno nelle processioni nel nostro mondo, dei vivi.

Non appena scesi con lo sguardo più in basso sui loro corpi,
con mio estremo stupore mi accorsi che ogni anima
era stravolta nella zona tra il capo ed il petto;

perché il loro volto era rivolto verso la schiena,
e dovevano per questo camminare all’indietro,
non avendo la possibilità di guardare davanti a loro.

Forse è già successo che a causa della paralisi
anche qua sulla terra qualcuno è rimasto stravolto così del tutto;
ma non ho mai visto nulla di simile e non credo comunque sia mai successo.

Che Dio ti possa concedere, lettore, di trarre un insegnamento
da questa lettura, e rifletti bene adesso su come avrei mai potuto
evitare di piangere, potuto tenere il mio viso asciutto,

quando vidi da vicino l’immagine umana
tanto storpiata, che le lacrime scese dagli occhi
andavano a bagnare le natiche scendendo lungo il filo della schiena.

Io infatti piangevo, appoggiato ad una delle sporgenze
della dura roccia, tanto che la mia guida Virgilio
mi disse: “Anche tu fai come tutti gli sciocchi?

Qui vive la vera pietà verso Dio perché è morta quella verso i dannati:
non ci può essere persona più ingiusta di quella
che segue le proprie passioni per valutare il giudizio di Dio.

Alza la testa, alzala, e guarda bene colui, Anfiarao,
sotto al quale si aprì la terra alla vista dei Tebani;
mentre tutti gridavano: “Dove precipiti,

Anfiarao? Perché abbandoni la guerra?”
E non smise di precipitare di abisso in abisso
fino a che non raggiunse Minosse, che affera chiunque.

Guarda come adesso ha come petto le sue spalle:
poiché da vivo ha voluto guardare troppo avanti nel futuro
adesso guarda dietro a sé e cammina anche all’indietro.

Guarda anche Tiresia, che cambiò il suo aspetto
quando da uomo divenne infine donna,
mutando completamente il suo corpo;

e dovette percuotere nuovamente
i due seprenti attorcigliati, usando una verga,
prima di riavere indietro le proprie sembianze maschili.

Arunte è invece quello che segue il ventre di Tiresia con la propria
schiena, colui che sui monti Luni, dove coltivano la terra
i Carraresi, che abitano più in basso,

fece di una grotta tra i bianchi marmi del luogo
la sua casa, dalla quale la vista delle stelle
e del mare non gli era impedita da nulla.

E quella che copre il suo seno,
che tu non puoi vedere, con le sue lunghe trecce sciolte,
ed ha invece tutta la peluria dall’altra parte,

in vita fu Manto, colei che vagò per molte terre;
si fermò infine là dove sono nato io;
mi piace quindi che tu mi stia un poco ad ascoltare.

Dopo che suo padre Tiresia morì,
e la città di Tebe cadde in servitù,
Manto vagò per lungo tempo per il mondo.

Lassù nella parte alta dell’Italia si trova un lago,
ai piedi delle Alpi che chiudono l’Allemagna,
sopra il castello di Tirolo, lago chiamato Benaco o lago di Garda.

Mille e, credo, anche più fonti d’acqua bagnano quella regione
tra il lago di Garda, la Val comonica e la catena alpina,
acqua che poi va a stagnare nel suddetto lago.

In mezzo al Benaco c’è un luogo dove sia il vescovo di Trento,
che quello di Brescia ed anche quello di Verona
protrebbero dare la loro benedizione, se passassero di là.

La città di Peschiera, bella e robusta fortezza
per tenere testa ai bresciani ed ai bergamaschi, si trova dove
le due catene monutose che fanno da riva al lago scendono fino alla pianura.

Da quel punto conviene che defluisca tutta quanta l’acqua
che non può più essere contenuta nel lago di Garda,
a formare un fiume che scorre poi attraverso i verdi pascoli.

Dal momento in cui l’acqua comincia a scorrere,
prende il nome di Mincio e non più di Benaco,
e tiene il suo nome fino a Governolo, dove infine sbocca nel Po.

Il Mincio non scorre per un lungo tratto prima di incontrare un
avvallamento, nel quale si allarga fino a farne una palude;
durante la stagione estiva quest’acqua stagnante può essere malsana.

Passando da quella palude, la vergine selvaggia Manto
vide un pezzo di terra, in mezzo a tutto quel pantano,
senza nessuna coltivazione, incolto, e privo di abitanti.

Lì, per sfuggire ad ogni società umana,
si fermò con il suo seguito di servi per dedicarsi alla magia,
ci visse a lungo, fino a lasciarci il suo corpo morto, privo d’anima.

In seguito gli uomini che prima erano sparsi tutt’intorno
si raccolsero in quello stesso luogo, reso una fortezza naturale
proprio da tutto il pantano che aveva intorno.

Venne edificata una città sopra le ossa di Manto;ed in nome di lei,
che per prima aveva scelto quel luogo come sede, la chiamarono Mantova,
senza dover fare troppi sortilegi per prendere la decisione.

I suoi abitanti furono in passato molto più numerosi,
prima che i pazzi conti da Casalodi
si lasciassero ingannare da Pinamonte.

Mi auguro pertanto che se mai sentirai
raccontare una diversa storia sull’origine della mia città,
quella menzogna non possa sostituire la verità.”

Ed io risposi: “Mio maestro, i tuoi ragionamenti mi sono tanto chiari
e ottengono talmente la mia fiducia, che in confronto
ogni altro ragionamento mi farebbe l’effetto di un carbone spento.

Ma dimmi adesso se, della gente che vediamo camminare,
vedi qualcuno di nota, che convenga che io conosca;
perché solo a questo il mio pensiero alla fine ritorna.”

Virgilio allora mi disse: “Quel dannato dalle cui guance
scende una lunga barba fino alle sue spalle di colore scuro,
fu in vita, al tempo in cui la Grecia rimase priva di uomini

tanto che c’erano quasi solo lattanti, un augure,
un indovino, ed insieme con Calcante indicò il momento favorevole
per tagliare le corde che tenevano le navi e partire alla volta di Troia.

Il suo nome fu Euripilo, e ricorda le sue gesta
la mia massima opera, l’Eneide, in un suo passaggio:
ma lo sai già bene tu, che la conosci tutta.

Quell’altro invece, che ha i fianchi tanto stretti,
fu in vita Michele Scotto, colui che conobbe veramente
l’arte vana della magia fatta per ingannare.

Puoi vedere anche Guido Bonanni; puoi vedere anche Asdente,
che vorrebbe aver prestato attenzione in vita solo al cuoio e all’ago,
ma si pente oramai troppo tardi dei suoi peccati.

Puoi vedere anche le donne inelici che abbandonarono l’ago,
la spola ed il fuso per fare le indovine;
e fecero mille magie con erbe ed immagini.

Ma vieni avanti adesso; perchè sta già toccando l’orizzonte
comune ai due emisferi e sfiora l’onda del mare
sotto Siviglia, la Luna;

già ieri notte la luna è stata piena: devi tenerlo bene a mente,
perché non ti ha fatto male, anzi ti è servita
qualche volta la sua luce attraverso la selva oscura.”

Questo mi diceva Virgilio, ed insieme proseguivameno il nostro viaggio.

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