PIUMA di Luigi Pirandello | Testo

Già s’era accorta che la pietà dei parenti non era tanto a costo delle sue sofferenze, quanto di quelle che ella dava loro, senza volerlo, col suo male inguaribile; e che insomma nasceva da un certo goffo rimorso quella loro affannata pietà. Il grosso marito calvo e accigliato, quella grossa cugina povera, corazzata da due poppe prepotenti sotto il mento, i capelli che parevano un casco di ferro su la fronte bassa e quel pajo di spaventosi occhiali sul fiero naso, anche un po’ baffuta, poverina; volevano soffrire per lei perché intendevano di pagare così il sollievo, il bene che sarebbe loro venuto dalla sua morte.
E difatti, quand’ella soffriva, le erano a torno ansanti e premurosi; ma poi, appena il male le dava requie e sul letto poteva gustare per ogni nonnulla una lieve gioja innocente, una dolcezza di respiro nuovo tra il candor fresco del letto rifatto, né l’uno né l’altra partecipavano alla sua gioja; si staccavano anzi dal letto e la lasciavano sola.
Dunque, patti chiari: non le concedevano il diritto di star bene; le concedevano in cambio il diritto di tormentarli col suo male, quanto piú potesse, quanto piú sapesse. E pareva che di questo cambio volessero proprio essere ringraziati.
Non era troppo?
Tormentarli, doveva tormentarli per forza; non poteva farne a meno: non dipendeva da lei. Che poi la lasciassero sola nei momenti di requie, non solo non le importava nulla, ma le taceva anzi un gran piacere, perché sapeva bene che quei due non avrebbero potuto neppur lontanamente immaginare di che cosa ella godesse, di che vivesse.
Pareva di nulla. E veramente non viveva piú di ciò che agli altri bisognava per vivere. Così anche poteva credere di non toglier nulla agli altri rimanendo lì in attesa della morte che non veniva. Ma spesso gli occhi, che avevano ancora il limpido brillio dello zaffiro, vivi essi soli nella sparuta magrezza del visino diafano, le ridevano maliziosi.
Forse si vedeva come quella formichetta dell’apologo nel suo libro di lettura di quand’era bambina: la formichetta che, attraversando una via, chiedeva ai passanti:
– Che vi fa, buona gente, questa mia pagliuzza?
Una pagliuzza? Niente! Ma pretendeva la formichetta che tutto il traffico della via, gente, veicoli s’arrestassero per lasciarla passare con quella sua pagliuzza.
E fosse almeno passata! Ma non passava mai: non poteva passare, perché veramente il tempo per lei non passava piú.
In quella vana attesa di morte, la vita esterna s’era come assordita in lei.
Da anni e anni durava in quel suo male che nessun medico finora aveva saputo dichiarare; e non si capiva come.

Nella luce di quella vasta camera bianca, su quell’ampio letto bianco, s’era ridotta piú fragile di quegli insetti d’estate che, a toccarli appena, son lieve polvere d’oro tra le dita Come faceva, così fragile, a resistere agli spasimi di quei fieri accessi del male, non rari? Non pareva un dolore umano, poiché le strappava dalla gola cupi gridi d’animale. Ma pure resisteva. Poco dopo, calma, era come se non fosse stato nulla. Diventava sempre piú magra, questo sì; e piú che a vederla, era uno spavento a immaginare a che punto di magrezza si sarebbe ridotta di qui a dieci, di qui a vent’anni, chi sa! perché forse per venti anni ancora, e piú, avrebbe seguitato su quel letto a incadaverirsi viva; pur senza sformarsi, pur senza perdere, anzi acquistando sempre piú una sua certa grazia infantile, per cui pareva non tanto dimagrisse, quanto si rimpiccolisse tutta a mano a mano che il tempo passava, quasi che, per prodigio, dovesse uscir di vita non già dalla vecchiaia, ma dall’infanzia, a ritroso.
Gli occhi però, gli occhi nel brillio dell’azzurra luce, in quello sparuto visino di bimba, non erano infantili; si facevano anzi sempre piú diabolicamente maliziosi; massime quando, dopo gli accessi del male, ancora aggruppata nel letto, con la testina arruffata giú dal guanciale, su la rimboccatura del. lenzuolo scomposta, guardava i dorsi del grosso marito e della grossa cugina, che s’allontanavano curvi e mogi mogi dal letto.
Disperati, quei poverini! Chi sa che discorsi facevano tra loro di là, e che pensavano di qua, stando a vegliarla! Forse la vedevano come presa in uno strano impenetrabile incanto, che la rappresentava loro come lontana lontana, pur lì vicina, sotto i loro occhi. Ciò che ella chiamava “sole”, ciò che ella chiamava “aria”, quando con una voce che non pareva piú umana diceva “sole”, diceva “aria”, forse a nessuno dei due pareva che fosse piú lo stesso loro sole, la stessa loro aria. Era difatti come il sole d’un altro tempo, un’aria ch’ella chiedesse da respirare altrove, lontano; perché qui, ora, doveva loro sembrare ch’ella non avesse piú bisogno né di sole né d’aria né di nulla.
Lontano lontano, nel tempo suo lieto, col sole e l’aria d’allora, quand’era bella e sana e gaja e i limpidi occhi di zaffiro avevano fremiti di desiderio o collere ridenti; e dove lucidi, precisi con tutti i loro colori, quasi riflessi davanti a lei in uno specchio, le vivevano gli aspetti della sua vita, com’era allora.
Si dondolava andando, ma così leggera! per quel traforo verde del lungo pergolato opaco, con in fondo il sole abbarbagliante; le manine rosee appese alle falde del gran cappello di paglia stretto ai lati da un nastro di velluto nero annodato sotto il mento. Oh quella paglia! Sul cristallo azzurro della fontana in fondo al pergolato, ove lei ora corre a specchiarsi, pare un cestello rovesciato.
– Amina! Amina!
Chi la chiama così? Scende la scalinata sotto il pergolato. Sulla spiaggia non c’è nessuno. E ora, in barca, sola, col mare agitato, si sente assalita dalle ondate che la sferzano, come di piombo. E si sente acqua, si sente vento; viva in mezzo alla tempesta. E ogni volta, a ogni sferzata, ah! è un divino imbevimento, che la fa quasi nitrire, ebbra. Una forza agile, prodigiosa, tremenda, la lancia, poi la culla spaventosamente. E in questo spavento vertiginoso che voluttà!

Non bisogna abusarne; se no, è l’affanno di nuovo e il feroce morso di quei dolori al petto che la fanno urlare come una belva. No no – bisogna tenerla lontana così – la sua vita, per viverla soltanto lì, nel ricordo.
Oh come le piacciono lì certe giornate di nuvole chiare, dopo le piogge, con l’odore di terra bagnata e nella luce umida l’illusione delle piante e degl’insetti che sia di nuovo primavera. La notte, le nuvole dilagano su le stelle e le annegano, per poi lasciarle riapparire su brevi profonde radure d’azzurro. Ed ella, con l’anima piena della piú angosciosa dolcezza d’amore, ecco, affonda gli occhi in quel notturno azzurro, e si beve tutte quelle stelle.
Poche gocce d’acqua, qualche goccia di latte, ora, e nient’altro. Ma nel sogno così, anche a occhi aperti, dov’ella perennemente viveva, venivano a nutrirla in abbondanza i ricordi che per lei erano vita. Le recavano con piú la materialità, ma la fragranza e il sapore dei cibi d’allora, di quelli che piú le piacevano, frutta ed erbe, e l’aria d’allora e la gajezza e la salute.
Come poteva piú morire? Dopo un lieve sonno, la sua anima era pienamente ristorata, e bastava al suo corpo, così com’era ridotto, che quasi non era piú, una goccia l’acqua, una goccia di latte.
La grossolanità goffa dei corpi, non solo del marito e della cugina, ma di quanti le s’accostavano al letto era ormai ai suoi occhi, a tutti i suoi sensi acutissimi, d’una gravezza insopportabile, e cagione di ribrezzo e qualche volta anche di terrore. La diafana gracilità delle pinne el suo nasino fremeva, spasimava, avvertendo i nauseanti odori di quei corpi, la densità acre dei loro fiati; e quasi avevan peso per lei anche i loro sguardi quando le si posavano addosso per commiserarla. Sì, sì questa commiserazione, come tutti gli altri sentimenti e desiderii, in quei corpi, avevan peso per lei e anche cattivi odori. Nascondeva perciò spesso la faccia sui guanciali, finché non si fossero allontanati dal letto. Da lontano, con piú spazio attorno alla chiara, aerea levità del suo sogno, li guardava, e dentro di sé ne rideva, come di grosse bestie strane che non potevano vedersi, da sé, come le vedeva lei, condannate all’affanno di stupidi bisogni, di gravi e non pulite passioni.
Piú che per tutti gli altri rideva tra sé per il marito, quando lo vedeva piantato in mezzo alla camera con la pensosità pesante e lugubre dei buoi. Anche così da lontano, gli scorgeva la pelle spungosa, seminata di puntini neri. Certo egli credeva di lavarsi bene, ogni mattina; bene come si lavavano tutti gli altri; ma anche a tutti gli altri, per quanto si lavassero, restavano sempre nella pelle tutti quei puntini neri. Poteva scorgerli lei sola, come lei sola scorgeva la granulosità dei nasi e tant’altre cose che, a guardar così da lontano, erano per lei divertentissime.
La grossa cugina con gli occhiali, per esempio, non poteva fare a meno d’abbassar le palpebre, appena ella la fissava col capo di solito reclinato giú dal guanciale, sul bianco della rimboccatura del lenzuolo.
In quel bianco, il suo visino quasi spariva, e solo si vedevano, acuti e brillanti, i due grandi occhi di zaffiro, come due vive gemme posate lì.

Ridevano però, ardevano diabolici di riso, non perché sotto gli occhiali della cugina scorgessero grossi e lunghi i peli delle ciglia, quasi antenne d’insetto, ma perché ella sapeva bene che la cugina, venendo qua così pacifica, con l’aria di niente, ad assisterla, lasciava nelle altre stanze di là un dramma che piú goffo nella sua grossolanità non si sarebbe potuto immaginare: il dramma della sua passione, povera grossa cugina con gli occhiali; il dramma, certo, della sua vergogna e del suo rimorso; ma anche – oh Dio, perdono! – anche de’ suoi segreti piaceri carnali col grosso cugino, attossicati da chi sa quante lagrime, poverina!
Avrebbe voluto dirle che, via, non stesse a pigliarsela tanto, perché ella sapeva, aveva indovinato da un pezzo, e le pareva naturalissimo che tutti e due, cugino e cugina, visto che la morte non veniva di qua a liberarli, di là si fossero messi insieme maritalmente, con quei loro grossi corpi – oh Dio, si sa – tentati l’uno verso l’altro dalla vicinanza e dal bisogno d’un conforto reciproco. Naturalissimo. E già due volte, in sei anni, la poverina era stata costretta a sparire, la prima volta per tre mesi, la seconda per due. Perché – si sa, oh Dio – non è senza conseguenze, il piú delle volte, questo cocente bisogno di conforto reciproco. Il marito le aveva detto che era andata in campagna a riposarsi un poco. Glie lo aveva detto però con tale aria smarrita e vergognosa, che certo ella sarebbe scoppiata a ridergli in faccia, se veramente avesse ancora potuto ridere. Ma non poteva, altro che con gli occhi, ormai. Ridere, ridere forte, con la sua bocca rossa, coi suoi denti splendenti, ridere come una pazza, poteva là soltanto, nel sogno vivo in cui si vedeva, con la sua immagine rosea e fresca di salute; e là, sì, là aveva riso riso riso, ma tanto, come una pazza!
Avrebbe forse dovuto pentirsene, come d’un peccato, perché costava necessariamente lagrime agli altri questo suo inutile riso. Ma che poteva farci se non moriva? E del resto, che pentimento, se l’uno e l’altra, stanchi d’aspettare invano la sua morte, s’erano di là accomodati tra loro? Perché non potevano, con lei ancora lì, regolare la loro unione, la nascita dei due figliuoli? Avrebbero dovuto pensarci prima, ai figliuoli! Li avevano fatti e ora piangevano? Per fortuna, certo, i due piccini non potevano ancora prender parte a quel loro affanno. fuori come le i dalla goffaggine delle grossolane e complicate passioni.
N’ebbe la prova, un giorno.
Nell’ampia camera luminosa non c’era nessuno. Di tanto in tanto alla cugina faceva comodo credere ch’ella dormisse e che poteva perciò lasciarla sola, non ostante l’espressa raccomandazione del marito. (S’erano messi insieme i due, ma certo in un modo molto curioso, salvando cioè nei loro cuori grossi ma teneri l’affetto per lei, un affetto che appariva tanto piú comico quanto piú si dimostrava sincero e commovente, ma che pur forse doveva dare alla cugina, qualche volta, una cert’ombra di gelo sia, se egli, per esempio, nel sostenerla negli accessi del male, le ravviava con dita tremanti i lunghi capelli d’oro, ricordo d’intime carezze lontane.)
Quel giorno, la cugina la aveva lasciata con tanto d’occhi aperti; ma non importa: doveva credere che dormisse, ed era uscita da un pezzo dalla camera, quando a un tratto l’uscio s’era schiuso ed era entrata una grossa bamboccetta con gli occhiali, che reggeva con un braccino sul petto una bambola tignosa, in carnicino rosso e senza un piede, e nell’altra mano una mela sbocconcellata. Smarrita e titubante, pareva una pollastrotta scappata dalla stia e penetrata per caso in un salotto.
Ella, sorridente, le aveva fatto cenno con la mano d’accostarsi al letto; ma la bimba era rimasta come incantata a mirarla da lontano.

Con gli occhiali, povera mimma, chi sa qualcuno non volesse credere di chi era figlia; ma ben pasciuta poi, sana, placida e – si poteva giurare – perfettamente ignara dell’affanno che aveva dovuto costare alla madre il metterla al mondo illecitamente; ignara e beata de le belle rosse mele che si potevano intanto mangiare, così con tutta la buccia e col solo ajuto dei dentini, in questo illecito mondo, dove per lei forse solamente alle bambole poteva capitare la disgrazia di perdere un piede e il parrucchino di stoppa.
Volle avere pietà; e quando, poco dopo, la madre accorse tutta sossopra e quasi atterrita a ritirar di furia quella bimba dalla camera, ove certo s’era introdotta eludendo la rigorosa vigilanza, chiuse gli occhi e finse di dormire davvero. Finse di dormire anche quando la cugina, ancora tutta rimescolata, venne a riprendere il suo posto d’assistenza presso il letto; ma, Dio Dio, che tentazione d’aprire un tratto gli occhi ridenti e di domandarle all’improvviso:
– Come si chiama?
Sì, via, bisognava un giorno o l’altro venire a questa risoluzione. Chi sa quali disordini cagionava di là il mantenere ancora, qua, tutto questo inutile mistero! E poi anche si moriva dalla curiosità di sapere se l’altro figliuolo fosse un bamboccetto o un’altra bamboccetta, e se anche questa seconda, per non sbagliare, fosse con gli occhiali.
Ma s’infranse da sé il mistero, in un modo inopinato, pochi giorni dopo l’entrata furtiva di quella bimba nella camera.
Urli, pianti, fracasso di seggiole rovesciate, un gran subbuglio, quel giorno, venne dalle stanze di là, nell’ora del desinare. Ella indovinò che qualcuno era trascinato con molto stento, sorretto per la testa e pei piedi, da una stanza all’altra, dalla sala da pranzo a un letto. Il marito? Un colpo d’apoplessia? I pianti, gli urli erano disperati. Doveva esser morto.
Non per lei, che da tanto tempo stava qui ad aspettarla, sua preda accaparrata, ma per un altro che non se l’aspettava, la morte era entrata nella casa. Era entrata, forse; passando innanzi all’uscio socchiuso di quella camera bianca; forse s’era fermata un momento a guardarla sul bianco letto; poi s’era introdotta di là nella sala da pranzo per picchiar di dietro col dito adunco sul cranio lucido del grosso marito intento a divorare senza sospetto il suo pranzo quotidiano.
Doveva ora piangere di questa disgrazia? Era per quelli che restavano in vita. Le feste, i lutti, le gioje, i dolori degli altri non erano piú da gran tempo per lei, che dal suo letto li considerava solo come buffi aspetti di qualche cosa che piú non la riguardasse. Era anche lei della morte. Quell’esile filo di vita che conservava ancora, serviva per condurla fuori, lontano, nel passato, tra le cose morte, in cui solo il suo spirito viveva ancora, non chiedendo altro di qua, alla vita degli altri, che una goccia d’acqua, una goccia di latte; non poteva dunque legarla piú a questa vita degli altri, ormai estranea a lei, come un sogno senza senso.
Chiuse gli occhi ed aspettò che di là quel subbuglio a poco a poco si quietasse.

Dopo alcuni giorni vide entrare nella camera, vestita di nero, tra le due bambine vestite anch’esse di nero, la grossa cugina con gli occhiali, disfatta dal pianto. Le si piantò come un incubo lì davanti al letto; poi prese a sussultare, arrangolando; e infine stimò giustizia gridarle in faccia tra infinite lagrime la sua disperazione, mostrando le due piccine orfane, e il danno ormai irreparabile ch’ella aveva fatto loro non morendo prima. Come, come sarebbero rimaste adesso quelle due piccine?
Ella ascoltò da prima sbigottita; ma poi, protraendosi a lungo lo spettacolo un po’ teatrale di quella disperazione pur sincera, non ascoltò piú: fissò l’altra bimba che ancora non conosceva e notò con piacere che questa era senza occhiali. Le parve un refrigerio sentirsi così esile, quasi impalpabile, tra il fresco delle lenzuola bianche, bianca, di fronte a tutto quel nero angoscioso tempestoso bagnato di lagrime, che involgeva e sconvolgeva la grossa cugina; e ben buffo le parve, che se lo fosse assunto lei, così, il lutto del marito, e lo avesse anche imposto a quelle due povere piccine che fortunatamente avevano l’aria di non ricordarsi piú di nulla e una gran maraviglia avevano negli occhi spalancati d’esser penetrate finalmente in quella camera proibita e di veder sul letto lei che le guardava con curiosità affettuosa.
Non comprendevano, certo, quelle due bambine ch’ella avesse loro fatto un gran danno, quel gran danno che la loro mamma gridava così disperatamente. Ma non c’era proprio rimedio? nessun rimedio? Lo chiese a nome delle due piccine, per risparmiar loro lo sbigottimento di tutto quel pianto e di tutte quelle grida. C’era? E dunque, perché quel pianto e quelle grida? di che si trattava? di lasciar tutto ciò che ella possedeva a quelle due piccine? Ma subito! ma pronta! Veramente, per sé, ella credeva di non possedere piú altro che quell’esile filo di vita, il quale aveva soltanto bisogno di qualche goccia d’acqua, di qualche goccia di latte. Che le importava di tutto il resto? Che le importava di lasciare agli altri ciò che non era piú suo da tanto tempo? Era una faccenda difficile e molto complicata? Ah sì? e come? perché? Ma dunque davvero era una goffaggine insopportabile la vita, se una cosa così semplice poteva diventar difficile e complicata.
E le parve di vedersela entrare in camera, alcuni giorni dopo, la complicata goffaggine della vita nella persona d’un notajo, il quale alla presenza di due testimonii, prese a leggerle un atto interminabile, di cui non comprese nulla. Alla fine, con molta delicatezza, si vide presentare un oggetto che non vedeva piú da tanto tempo. Una penna, perché apponesse la firma a quell’atto, non solo in fondo, ma parecchie volte, in margine a ogni foglio di esso.
La sua firma?
Prese la penna; la osservò. Quasi non sapeva piú reggerla tra le dita. E alzò poi in faccia al notajo i limpidi occhi di zaffiro con un’espressione smarrita e ridente. La sua firma? Aveva ancora dunque il peso d’un nome ella? un nome da lasciare là su quella carta?
Amina… e poi come? Il nome di zitella, e poi quello di maritata. Oh, e anche vedova bisognava mettere? Vedova… lei? E guardo la cugina. Poi scrisse: Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara.
Rimase a contemplarla un pezzo quella sua incerta scrittura sulla carta. E le parve così buffo che si potesse credere che in quel rigo di scrittura lì ci fosse veramente lei, e che gli altri se ne potessero contentare, non solo, ma se ne beassero tanto, come d’un atto di grande generosità, che costituiva una vera fortuna per le due povere piccine vestite di nero, quella firma. Sì? E ancora, dunque! ancora… Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara… Per lei era come uno scherzo, strascicare quel lungo nome goffo su per tutti quei fogli di carta bollata, come una bambina parata da grande, la lunga coda della veste di mamma.