ARGO E IL SUO PADRONE di Italo Svevo

Il dottore m’aveva esiliato lassù: Dovevo restare per un anno intero nell’alta montagna movendomi quando il tempo lo concedeva e riposare quando lo imponeva. Idea geniale che però non mi fu utile. Il movimento che l’estate aveva concesso abbondantemente non m’aveva fatto bene ed il riposo impostomi dalle prime bufere e che dapprima mi parve gradevole, fu subito eccessivo, noioso, snervante. Poi la noia mi spinse ad un’avventura con una donna del rude paese. Finì – come si vedrà – male, e alla noia s’associò un rancore per tutto il paese che doveva servirmi di medicina.
La vecchia Anna, la mia sola compagnia nella casetta riparata da una rupe, essa sì, faceva la cura intera. Talvolta dimenticava di fare il mio letto. Io la guardavo con invidia e non sapevo arrabbiarmi. Quando fingevo di perdere la pazienza essa s’indignava: «Non ho che due braccia!» gridava, e queste due braccia piccole e grassoccie andavano solo ora in attività per alzarsi al cielo in segno di protesta.
Io me ne andavo rallegrato di vedere che il riposo – per lei almeno – non era poi una cosa tanto cattiva.
Nella mia stanza da letto leggevo il giornale da capo a fondo compresi gli avvisi. Interrompevo spesso la noiosa lettura per consumare del combustibile nella stufa di ferro che tenevo sempre rossa. “Ora basterà!” mi dicevo sentendo che la temperatura era calda abbastanza, e, invece, poco dopo, abbisognando di movimento mi davo di nuovo da fare col carbone, così che poi m’era imposta (grazie al cielo!) una nuova attività: Quella di aprire la finestra eppoi, presto, di rinchiuderla quando l’aria afosa della stanza era tutta uscita a scaldare la montagna, e vi era stata sostituita di colpo da tanta umidità fredda, da obbligarmi ad un’accelerata attività intorno alla stufa. Veramente geniale l’idea di quel dottore!
Il mio cane da caccia, Argo, mi guardava con curiosità e un po’ d’ansietà temendo che la mia irrequietezza non prendesse un’altra direzione. Anche lui sapeva riposare. Era accovacciato sul soffice tappeto sul quale poggiava anche il mento piatto, e l’unica parte irrequieta del suo corpo era l’occhio. Così, certo, guardano le sogliole quando riposano in fondo al mare. E se aprivo la finestra lui s’avvicinava alla stufa e metteva nella stessa posizione il suo lungo corpo dopo di aver girato un po’ intorno a se stesso, e allorché la stanza era troppo calda egli emigrava ad un cantuccio lontano dalla stufa. Quando era riuscito a ritrovare la buona posizione emetteva un profondo sospiro. Non disturbava che quando dormiva perché russava – benché fosse ancora giovine – come una vecchia macchina sgangherata. Ebbe dei risvegli bruschi causa qualche calcio che gli allungai; ma dieci minuti dopo si era da capo ed io mi rassegnavo. In complesso quel rumore così eguale non era tanto spiacevole e, se divenivo cattivo, ciò avveniva per pura invidia.
Argo non era un personaggio molto importante neppure fra i cani. I cacciatori dicevano che non fosse di razza molto pura perché il suo corpo era un po’ troppo lungo. Tutti riconoscevano la bellezza del suo occhio vivo (anche quello troppo grande per un cane da caccia) del suo muso dal disegno preciso e della sua ampia cervice. A caccia era impulsivo; qualche giorno era aggressivo come quegli ubbriachi che aggrediscono perché portati dal loro peso. Le bastonature giovavano qualche volta ma più sovente aumentavano la sua bestialità e allora pareva un toro in una bottega di porcellane. Forse per questo suo carattere alleviò un po’ il dolore della mia sconsolata solitudine. Balordo e invadente, quando non mi faceva arrabbiare, mi faceva ridere.
Quella sera ritornavo per la quarta volta al giornale. Fuori c’era un diavoleto che chiudeva una giornata intera di maltempo. Una violenza di vento che non voleva sostare per un solo istante. Se continuava così, il giorno appresso saremmo stati tagliati fuori dal resto del mondo e a me non sarebbe stato concesso altro svago che di fare all’amore con la vecchia Anna. Ed io leggevo distratto dall’odio che sentivo aumentare nel mio animo pel dottore che mi aveva mandato quassù. Bel risultato aveva avuto da lui l’istruzione universitaria! Non avrebbe potuto dedicarsi a qualche mestiere meno dannoso?
Finalmente scopersi nel mio giornale una notizia che assorbì tutta la mia attenzione.
In Germania c’era un cane che sapeva parlare. Parlare come un uomo e con qualche poco d’intelligenza in più perché gli si domandavano persino dei consigli. Diceva delle parole difficili tedesche che io non avrei saputo pronunziare. Si poteva ridere di questa notizia ma non si poteva sorvolarla. Intanto non era una cosa che la valle raccontava alla montagna – come tutte le notizie politiche e sociali – tanto per ciarlare visto che la montagna non c’entrava per nulla. Era una notizia che concerneva me quanto le persone vive laggiù.
Non so se io, colpito, mi sia mosso, ma, a mia sorpresa, Argo alzò la testa dal tappeto e mi guardò. Aveva sentita anche lui la notizia che lo riguardava? Lo guardai anch’io e nel mio occhio doveva esserci per lui un’espressione tanto nuova che, inquieto, si rizzò sulle gambe anteriori per studiarmi meglio. Stornò subito il suo davanti al mio occhio inquisitore con quella vigliaccheria che c’è nello sguardo del cane, l’unico segno che la sua sincerità è meno intera di quanto si supponga. Ritornò a me e, battendo ora un occhio ora l’altro – movimento tanto comico perché si deve supporre che lo stupido animale alterni quel movimento per evitare di restar cieco anche per un solo istante – tentò di sostenere il mio sguardo. Poi, ipocritamente, guardò intento verso un canto della stanza ove non c’era nulla da vedere. Infine trovò una linea di mezzo fra me e il cantuccio così che poteva sorvegliarmi senz’affrontarmi.
La notizia del giornale m’aveva liberato da ogni noia. Sottolineata e confermata dalla pantomima di Argo non potevo più dubitarne: La notizia era vera. Argo sapeva parlare e taceva per sola ostinazione. Abbandonai il giornale che non conteneva altro che potesse interessarmi e addirittura mi gettai all’educazione di Argo.
Ebbi subito il sentimento di dare della testa nel muro. Lo stupido animale vedendosi aggredire da gesti e suoni, raccolse tutto il suo sapere e mi porse la zampa! Una, due, venti volte! Aveva intuito che gli si domandava di far mostra di quello che sapeva e porgeva la zampa! La dava sempre col medesimo gesto ampio. Doveva, per diventare umano, dimenticare il gesto del cane addomesticato al quale s’era arrestato come all’estremo limite della sua educazione.
Già quella prima sera perdetti la pazienza. Argo andò alla cuccia con la coda fra le gambe ma tuttavia posso dire che il suo stato era meno miserevole del mio. A letto ritornai alle insolenze al lontano dottore. Dovevo lasciare in pace il povero cane che non era la colpa del mio esilio.

Ma non era facile di accettare tanta inerzia come quella cui ero condannato avendo accanto Argo che m’offriva la possibilità di un’attività veramente sconfinata. Prima di allora, per scotermi, correvo alla stufa e giocavo col fuoco; ora, ad onta di ogni proposito, cadevo continuamente accovacciato accanto ad Argo. È l’unica posizione nella quale si possa parlare con un cane. L’innocente, dapprima, quasi per uno strano pudore guardava altrove quando vedeva un uomo nella posizione di un cane; poi vi si abituò. Ed ogni giorno furono venti e cento le lezioni. Piovevano le busse e i pezzettini di zucchero. Quando lo poteva, Argo cercava di sottrarsi a quella tortura. Ma io non seppi restare privo di lui se non quando dormivo. Talvolta lo scoraggiamento interrompeva le lezioni. La stessa ira mi faceva poi riprenderle: Dovevo pur vendicarmi di tanta imbecillità.
Nello stesso tempo mettevo la stessa disperata tenacia ad educare me stesso al compito impari. Spiai la bestia per scoprire se dovevo prenderla per il muso o per la coda. Raccolsi ogni suono ch’essa emetteva e quel suono m’accompagnava di giorno e di notte. La lotta fu lunga tanto contro la bestia quanto contro me stesso, ma il risultato fu un trionfo.
Cioè devo dire che fu un fiasco se non dimentico che il mio primo intendimento era stato d’insegnare ad Argo l’italiano. Argo non seppe mai dire una sola parola italiana. Ma che importa? Si trattava d’intendersi e perciò non c’erano che due possibili vie: Argo doveva apprendere la lingua mia oppure io la sua! Come prevedibile, dalle lezioni che ci davamo a vicenda, apprese di più l’essere più evoluto. L’inverno era ancora al suo apice ed io intendevo la lingua di Argo.
Non è mia intenzione d’insegnarla ai lettori e mi mancano anche i segni grafici per notarla. Del cane, poi, non è importante la sua povera lingua ma il suo vero carattere che io primo a questo mondo intravvidi. Parlandone, ne sono superbo come potevano esserlo coloro che prima di me scopersero altri lembi di natura: Volta, Darwin o Colombo. Argo mi fece le sue comunicazioni mansueto e rassegnato. Io le raccolsi e le lasciai nella loro forma originale di soliloqui perché tali rimasero visto che io non feci dei progressi tali in quella lingua da poter discutere con lui le sue comunicazioni.
Io ammetto di aver forse qua e là frainteso Argo ma non troppo: Posso aver sbagliate delle parole ma certo ho indovinato esattamente il senso loro complessivo. Purtroppo non posso citare la testimonianza di Argo stesso perché la povera bestia non giunse che all’estate: Crepò di nevrastenia acuta. Ma tutti coloro che lo conobbero, lo ravvisano in queste sue memorie.
I dettagli non hanno importanza e se ne hanno, non so che farci. Io dò quello che ho. La lingua del cane è meno completa della più povera lingua umana. Quando lo spinsi a filosofare (certo è Argo il primo filosofo di sua gente) ebbi da lui questa frase futurista: Odori tre uguale vita. Per giorni insistetti per averne il commento e non ebbi mai che la ripetizione. La bestia è perfetta e non perfettibile. Chi la studia deve saper progredire. Notai la frase come stava e procedetti oltre. Avute poscia altre sue comunicazioni me ne derivò qualche luce e pensai di aver capito. Divide la natura in tre classi solo perché per lui il massimo matematico è di tre; poi ne cita cinque e dalle sue esemplificazioni risulterebbe che ve ne sono molte di più. Io credo che questa è la vera, la grande sincerità filosofica.
Devesi notare il fatto curioso che tutte le comunicazioni di Argo si riferiscono al nostro soggiorno in montagna. La valle ove aveva soggiornato fino a pochi mesi prima sembra del tutto dimenticata visto che non menziona mai altre persone all’infuori di me, la vecchia Anna, e alcuni altri uomini e cani che lassù conobbe. Eppure quando si ritornò a valle egli dimostrò di riconoscere gli antichi amici. Non dimentica e neppure ricorda. Tiene in serbo.
Ecco le comunicazioni di Argo. Vi ho aggiunto qualche osservazione in parentesi di cui forse non c’era neppure bisogno.
I
Esistono tre odori a questo mondo: L’odore del padrone, l’odore degli altri uomini, l’odore di Titì, l’odore di diverse razze di bestie (lepri che sono talvolta ma raramente cornute e grandi, e uccelli e gatti) e infine l’odore delle cose. L’odore del padrone, quello degli uomini, di Titì e di tutte le bestie è vivo e lucente, mentre quello delle cose è noioso e nero. Le cose hanno talvolta l’odore delle bestie che vi passarono su, specialmente se qualche cosa vi lasciarono, ma altrimenti le cose sono mute. Noi cani amiamo di beneficare le cose. L’odore del padrone lo conoscono tutti e non occorre ne parli. Guai se non ci fosse quell’odore a questo mondo. Argo potrebbe fare quello che vuole ciò che sarebbe male. Quell’odore rassicura, dirige e protegge. Titì dice la stessa cosa dell’odore del suo padrone ma non le credo. Io poi so che anche la vecchia Anna obbedisce al mio padrone. Anche la vecchia Anna ha un odore che non c’è altrove. È gradevole sempre perché accompagna quello del cibo. Quando viene in corte con la grande scodella colma di cibo io aspetto che la deponga, e le faccio festa. Poi quando arrivo a mettere il naso nella scodella, questa è ben mia. Guai a chi la tocca. Se Anna stessa s’avvicina io ringhio. Così arrivai a tenere sempre tutta la scodella per me. La vita è fatta così: Prima bisogna pregare per avere le cose e poi ringhiare per conservarle.
Gli uomini hanno l’olezzo grande e sono grandi ma vi sono degli animali piccoli dall’odore grande ed è l’odore che non inganna. Vi è la piccola cagnina Titì che ha il grande olezzo della vita e dell’amore. Due Titì poste una sull’altra non arriverebbero alla testa – se eretta – di Argo. Eppure, così piccina, essa è una cosa molto importante a questo mondo e nella vita di Argo. Il padrone che nel resto è fatto come me, non corre dietro a Titì ed io lo lascio accanto a lei senza paura. Il suo odore me lo dice e non c’è più dubbio: L’odore non mente. Guai se non fosse così e al padrone importasse di Titì: Non sarebbe più il padrone, ma un oggetto da sbranare. Guai!

II
Un giorno sentii nell’aria l’odore di preda. L’odore non dice tutto della preda ma quando Argo l’ha sentito corre dal desiderio od ulula di paura. Non ha bisogno di vedere l’animale per prepararsi alla lotta o al godimento. È subito pronto. E quel giorno corsi spinto dal desiderio. Anna gridò che mi fermassi ma io non conosco dubbi quando la preda mi chiama se non c’è il padrone che mi trattenga.
Curiosa preda quella! Consegnava il suo odore solo al vento. Di solito tutte le stupide cose ne sono piene perché la bestia passando lascia dei segni dappertutto. Trema, palpita l’odore sui fili d’erba ed esala dalla terra nuda. Il padrone, quando c’è, incita, ma io so meglio di lui che traballa su due gambe sole mentre io ne ho tre. Poi son io che scopro la preda raggiunta ed il padrone l’abbatte. Ora essa giace là. Prima essa sapeva trattenere una parte del suo odore nel suo sacco di pelle e di pelo; ma ora che il sacco è squarciato la bestia è sincera. Comunica alla terra e all’aria tutta se stessa e intorno a lei tutto si avviva.
Correndo, quel giorno, sentivo di perseguire una bestia già sincera ciò che mi stupì perché le bestie sincere non sanno più correre. Sulla via si movevano un uomo e un piccolo omino. Li sorpassai e perdetti la traccia! Il vento era vuoto e muto. Ritornai sui miei passi e non ritrovai la traccia che quando giunsi dietro ai due uomini. Era evidente che l’odore di preda emanava da uno di quei due. Infatti dalla schiena del maggiore pendeva una bisaccia e in quella, sporgendone con la testa insanguinata, c’era la lepre. Certo, son sempre io che levo la lepre e altri la piglia, ma questa io non l’avevo neppure levata e sapevo perciò benissimo che non era mia.
Non c’era però ragione di non goderne. Io mi misi a saltellare intorno ai due uomini ed il più piccolo di essi mi accarezzò. Fiutai con l’odore della preda anche il suo che diveniva sempre più amico e benevolo e lo seguii. Ebbi qualche esitazione tanto più che ad un certo momento mi parve di sentire il fischio del padrone. Ma il suo odore non c’era e potevo essermi sbagliato.
L’omino dall’odore più dolce continuava ad accarezzarmi affettuosamente, e quelle carezze accompagnavano il suo odore. Anzi le carezze e l’odore finirono con l’essere una cosa sola. Così anche l’odore del cibo e quello della vecchia Anna si fondono. Procedemmo sempre oltre insieme. Ero certo che giacché il padrone non me lo impediva io dovevo seguire quel mio piccolo grande amico. E si discese e si risalì e si attraversò un bosco e là scopersi un nuovo olezzo. Non era la bestia che giaceva nella bisaccia perché questa era sospesa in alto mentre la nuova aveva colorato l’intero sentiero sul quale noi ci si moveva. Pensai: “Peccato che non c’è il padrone!”. Ma perché non era venuto? Feci uscire la preda dal folto di un cespuglio e l’uomo con un colpo ben mirato la fermò e la mise insieme all’altra nella bisaccia.
Ora si era più lieti ancora insieme e Argo fu accarezzato anche dal maggiore dei due. Poi si arrivò ad una casa ove c’era anche una vecchia Anna dall’odore di cibo ed ebbi di questo in abbondanza. Non mi lasciarono visitare tutta la casa, ma mi confinarono alla cucina. Più tardi l’omino mi portò dello strame ed ebbi un giaciglio abbastanza comodo. Tuttavia non mi fu possibile di pigliar sonno. E nell’oscurità, lasciato così solo in mezzo ad odori del tutto nuovi, mi misi ad ululare: Chiamavo il padrone e anche la vecchia Anna. Oramai la mia scorreria era terminata. Perché non venivano?
Venne invece il più grande dei due uomini. Io mi rizzai per fargli festa. Con un ceffone mi ribaltò sul giaciglio ed io intesi che voleva io stessi zitto. Continuai a lagnarmi fra me e me e restai solo e silenzioso per lungo tempo. Già nella cucina si stava meglio e il suo odore mi pareva più piacente. Le busse abituano a tutto. Si aperse ancora una volta la porta l’altro uomo, il piccolo, quello che mi si era dimostrato più mio amico, venne a trovarmi. Mi pose le braccia al collo e pose la sua bocca sulla mia. Io aspirai con voluttà l’odore amico. Poi mi diede un pezzettino di buona carne. A me il pezzettino parve piccolo e mi misi a far feste al donatore perché me ne desse di più. E nel far feste, per spingere l’omino alla generosità e aumentare l’allegria, mi misi ad abbaiare. L’omino corse via e mi chiuse l’uscio in faccia. E allora ad onta che sia tanto difficile quietarsi in un luogo straniero mi addormentai. Sognai che avevo non più un padrone solo ma due e si separavano andando in due direzioni opposte così che non potevo corrispondere al mio dovere di seguirli ambedue. Più tardi avvenne la stessa cosa con la preda. Ce n’era tanta che l’aria ne gridava. Era davanti a me e di dietro e alle due parti che l’aria ne portava l’olezzo ed io non potevo correre e soffrivo orribilmente.
Alla mattina venne il padrone. Non appena lo sentii, indovinai di aver fatto male. M’avvicinai a lui strisciando sulla pancia a dimostrazione del mio pentimento. Poi mi gettai supino con le gambe all’aria perché sapesse che non volevo né fuggire né difendermi. Mi diede alcune nerbate che mi fecero urlare. Poi le busse cessarono ciò ch’è una grande gioia. E quando si camminò la lunga via verso casa, io seguii il mio padrone lieto di essere fuori di ogni dubbio. Sarebbe stato ben male aver due padroni.
Rividi più volte l’uomo e l’omino perché stavano dalle parti ove abita Titì. Non li seguii mai più perché gli odori si possono dimenticare ma non le nerbate.

III
Un odore che non si scambia è quello di Titì perché è l’unico al mondo. Unico perché si sente talvolta anche quando chi l’emana non c’è e non è mai passato per di là.
Ricordo che una sera io ero chiuso in cucina con la vecchia Anna accovacciata al focolare. Nella noia, io ricordavo le mie corse per la montagna con il padrone o da solo. Ricordavo gli odori di prede ed uomini e stavo là tranquillo a guardare Anna e a riposare. Improvvisamente ricordai che una volta che spiavo l’odore di una lepre (un vero sentiero fatto dalla preda) m’imbattei in Titì attratta dallo stesso odore perché io e Titì amiamo le stesse cose. Il suo odore coperse naturalmente con la sua potenza quello della lepre che fu lasciata tranquilla. Subito a questo ricordo non seppi restare tranquillo in quella cucina perché l’odore di Titì era entrato traverso le porte e le finestre chiuse. Io mi lanciai contro la porta per raggiungere Titì che, certo, doveva trovarsi nelle vicinanze. La vecchia Anna credette tutt’altra cosa e mi mandò fuori. All’aperto l’odore di Titì era diffuso come in cucina. Tutto il vasto spazio diceva di lei. Annusavo le cose più stupide e c’era; me lo portava il vento ed io lo affrontavo per avvicinarmi all’essere amato. Ma questa volta mancava la traccia perché l’olezzo proveniva anche da destra e da sinistra. Tanto effluvio e Titì non c’era.
Titì è un essere bizzarro e mi fa impazzire. Talvolta io sento che essa è anche una preda ma la sola che non voglio sincera. Conservi intatto il suo sacco di pelle e di peli tanto dolce a leccare. Non addento e non meno la coda, ma credo di voler fare le due cose nello stesso tempo o di farne una terza che non so che sia. Essa finora mi sfugge mentre io non so di averle fatto mai del male. Pare rida quando mi lascia solo con la lingua fuori.
Un giorno seguivo il padrone nella sua passeggiata lenta quando m’imbattei in Titì: Fu una gioia grande e quando capita così inaspettata è difficile credervi. Mi feci a lei d’intorno per accertarmi che non si trattava di simulazione. Era proprio lei, la vera fonte dell’effluvio che m’inebria. Il padrone s’era fermato a discorrere con una signora (Argo dice qui ch’io annusavo quella signora ma non è vero e correggo senza esitazione. Trattavasi anche di una signora molto vecchia). Io perdetti subito la testa perché Titì pareva più buona e più docile del solito. Pensai: “Non starò mai privo di te”. L’abbrancai forte ma subito fui colpito da una nerbata che mi fece urlare. Non subito lasciai il mio amore ed anzi aumentai la stretta sapendo che Titì vuole la lotta; volsi però il muso per vedere il nemico. Pareva fosse il padrone. Ne ebbi il dubbio ma non c’era il suo odore. Giuro che in quell’istante non c’era altro odore che quello di Titì: E digrignai i denti senza esitazione né ritegno come si deve fare nel grande pericolo. Piovvero le nerbate che finirono col ribaltarmi con Titì. Anche a terra tenevo la mia preda; ma essa dovette aver ricevuto una parte dei colpi a me destinati e sottrattasi al mio abbraccio fuggì con la coda fra le gambe. Io ringhiavo e urlavo. Dallo spasimo dell’amore e del dolore non potevo rizzarmi. Finì che ritrovai l’odore del padrone. C’era intero oramai e non capivo dove l’avesse tenuto fino ad allora. M’accovacciai mitemente ai suoi piedi e lasciai che continuasse a percuotermi come egli doveva credere io meritassi. Ma se egli non vuol saperne di Titì perché impedisce me? Verrà il momento in cui egli non ci sarà ed allora non gl’importerà come non gl’importa mai quando non c’è.
IV
Solo Argo soffre. In tutto il mondo ch’è bello e lucente non c’è altra sofferenza. Gli odori non soffrono e le bestie hanno sempre lo stesso odore sieno esse sincere o coperte; perciò non soffrono. Quando sono sincere il loro odore diventa intenso… Come Argo è differente invece ogni giorno!
Quando mi mettono la catena io muoio di noia. Il vento si frange sul muro di cinta ed io sento degli odori indistinti che gridano tutti insieme e danno un frastuono che mi fa impazzire. Oh! Potessi almeno arrivare al luogo là sul muro dove gli olezzi sono ancora divisi! Argo ha bisogno di sapere. Non è un gatto cui basta celarsi. Per rompere la noia annuso la catena e il casotto e apprendo solo quello che purtroppo già sapevo, cioè che a quella catena e in quel casotto io ero già stato. E piango di più allora: Per il passato e per il presente. Non è un odore quello che io comunico alle cose ma è tuttavia evidente. Esse dicono: Sei qua di nuovo e sempre tu? Io alla catena ululo. Grido agli uomini di darmi la libertà e agli olezzi di scendere a me. Gli uomini e gli olezzi che non sanno il dolore non mi danno ascolto.
La catena e la museruola sono solo per Argo. La museruola è un pezzo di preda che non è né coperta né sincera. Io non so che cosa sia. Certo è una muraglia posta fra me e il creato, una nebbia che copre e rende meno distinta la vita.
È ben vero che vicino alla nostra abitazione c’è un cane ch’è alla catena il giorno intero. Ma non ne soffre! Bestia curiosa, quella! Non so il suo nome e credo non ne abbia alcuno. A che cosa gli servirebbe un nome quand’è certo che a nessuno salterebbe in testa di chiamarlo visto ch’egli non potrebbe accorrere? Dorme gran parte della giornata. Quand’è desto s’allontana dalla sua cuccia quanto la catena concede ed è contento di star seduto sulle zampe posteriori ad osservare tutte le cose che non hanno catena.
S’arrabbia solo quando fra le cose che sono senza catena vede me. Non credo mi voglia male. Il poverino non sa meglio e crede che la catena sia una necessità per tutti i cani. La crede una legge. Di solito gli passo accanto senza guardarlo; ma un giorno ch’ero col padrone egli si mise ad urlare ed io temetti che il padrone ascoltasse il suo consiglio di mettermi alla catena. Lo assaltai e, per farlo tacere, lo azzannai al collo. Mi trovai la bocca piena di solo pelo così ch’egli poté svincolarsi e ribaltarmi. Per fortuna mi riuscì ancora di fare un tal balzo che a lui, trattenuto dalla catena, non fu più possibile raggiungermi. Allora, da lontano, gli urlai minacce e maledizioni mentre egli rispondeva tutto il suo odio per me libero. Ora, ogni volta che passo accanto a quella bestia, per fargli sentire lo svantaggio della catena, lo provoco a debita lontananza. Egli addirittura perde la voce dall’ira. Io non m’avvicino di troppo. Non c’è scopo! Si può lasciarlo padrone di quel pezzo di terra. D’altronde è molto forte e ha il collo protetto da troppo pelo. Non capisco come ha potuto ribaltarmi con tanta facilità. La catena deve aiutarlo.
Ed Argo ha anche altri dolori che il resto del mondo non sa e non sente. Quando vede il padrone che carezza un altro cane, egli vuol bene al padrone più del solito, ma un bene fatto di dolore. Perché accarezza altri? Non ha me? Forse lo fa perché Argo sia più buono ed infatti se in quell’istante volesse qualche cosa da me, obbedirei più presto che di solito. Ma egli di me non vuole e accarezza l’altro. L’odio per quest’altro è fatto anch’esso di dolore. Non è permesso di sbranarlo perché c’è il padrone eppoi ho paura di fargli vedere la mia ira perché potrebbe gioirne. Io mi caccio fra quell’intruso e il mio padrone per dividerli perché se sono divisi non soffro più e vado fra di loro come per caso. Il padrone mi scaccia ma io ostinatamente continuo ad invadere quel piccolo tratto di terreno e scodinzolo simulando una gioia che sono ben lontano dal sentire. Perché questo è il dolore: Vorrei ululare per sollevare l’animo mio ma allora non ci sarebbe più la speranza di allontanare quella brutta bestia dal mio padrone. Bisogna celare il dolore e procurare di tornar gradito. Poi quando l’altro finalmente se n’è andato, io ritrovo intero il mio padrone e il suo odore. L’altro non ne portò via niente. Ed io mi dico: Dunque fu stupido soffrire! Ma alla prossima occasione avviene esattamente la stessa cosa perché Argo è fatto per soffrire.
È però egualmente vero che Argo è il solo che sappia veramente godere e ridere. Quando si esce col padrone, specialmente se in quell’istante mi tolsero alla catena, il mio corpo diventa tutto gioia. So che il padrone quando vuol ridere chiude un poco gli occhi ed apre la bocca. Ma la gioia da me è altra cosa. Mi getta di qua, mi getta di là, e faccio senza sforzo dei balzi enormi. Talvolta neppure la nerbata più dolorosa basta ad arrestare la gioia della libertà in compagnia del mio padrone. Quando sono solo la gioia è uguale ma balzo meno. I miei balzi sono fatti pel padrone acciocché ne gioisca con me e capisca che non bisogna rinchiudermi.
Com’è bella la via affollata! Questo sasso ebbe la visita di Titì e nel suo odore la vedo e l’abbraccio. Guardo il padrone per vedere se ha capito. Deve ignorare quell’odore perché non mi picchia. Poi dimentico Titì perché so che in compagnia del padrone non c’è gusto. Una preda lasciò una striscia traverso la strada. Il padrone mi guarda e poi mi richiama perché non ha lo schioppo. Quanti cani varcarono la via quest’oggi! Tre! Alla base di quel tronco c’è un saluto di uno di loro. Dove sei ora, amico sconosciuto?
Ma il mio padrone cammina nel mezzo della via senza deviare di un passo per spiare gli olezzi. Egli ha i sensi più potenti di quelli di Argo e non ha bisogno di accostarli per goderne.

V
Non lontano dalla nostra casa c’è un grande e profondo burrone ed io amo riposare là accanto. Un giorno vidi che un uomo, dall’altra parte ch’è la più erta, venne giù, giù, sempre più presto. Non camminava sulle gambe. S’arrestò ad uno sterpo. Non gridò perché altrimenti avrei gridato con lui; ma restò là esitante. Poi strappò lo sterpo che aveva tenuto afferrato e disparve in fondo. Sentii chiaramente lo stormire di sterpi e foglie al suo passaggio. Volli seguirlo per vedere che cosa facesse in quel luogo che a me sembra mio. Fui richiamato e non ci pensai più.
Ma il giorno appresso sentii che l’uomo laggiù putiva come una folla di animali uccisi. Certo giaceva nel proprio sangue. Il padrone che, certo, annusava come me, non volle. Dopo qualche altro giorno l’olezzo gridava e mi raggiungeva persino alla catena divenuta perciò ancora più incresciosa del solito e, quando Anna mi liberò, io, deciso, volli soddisfare la mia curiosità. Non mi curai del cibo già pronto e corsi al burrone. Anna gridava e credo che anche il padrone fischiasse ma di questo non sono sicuro. Scesi nel burrone e mentre saltavo di sasso in sasso sentivo sempre più chiaro l’uomo e il suo sangue. Finalmente eccolo qua con la testa aperta. Mi misi ad abbaiare dal piacere, ma allora sentii chiaro e imperioso il fischio del padrone. Non c’era da ingannarsi e dovevo obbedire. Ma con quale dolore dopo tante fatiche. Volevo risalire quando scorsi, imbrattato di sangue, il berretto dell’uomo. Lo presi in bocca e così mi fu più facile la lunga via per risalire perché l’odore era mio. Il padrone pareva impaziente ma non mi picchiò. Prese il berretto in mano per fiutarlo meglio ed io pensai che analizzasse quell’odore per sapere quello che io avevo fatto e se meritassi legnate. Ma io non potevo impedire a quell’uomo di entrare in un luogo nostro ed il padrone lo comprese. Infatti non mi picchiò! Non volle darmi il berretto che tenne come suo quasi fosse una preda.
Il giorno dopo seppi sfuggire di nuovo alla vecchia Anna e ritornai al burrone. C’era qualche cosa di nuovo! L’odore era oramai sparso per il sentiero per cui ero sceso il giorno innanzi; lo scopersi già sulla strada maestra su cui c’era persino una goccia di sangue. Certo quell’uomo era fuggito! Infatti in fondo al burrone non c’era l’uomo ma solo il suo sangue ch’egli non aveva potuto portare seco. Ed io risalii sulla traccia di quell’odore ed ero tanto immerso nel mio lavoro che non sentii il fischio del padrone. Sulla strada non sapevo se l’odore girava a destra o a sinistra e rimasi perplesso. Ma lassù mi trovai improvvisamente dinanzi al padrone. Non mi picchiò! Anzi socchiuse gli occhi ed aperse la bocca. Ed io dalla gioia dimenticai l’uomo e il berretto e balzai abbaiando intorno al padrone che m’accarezzò. Così appresi che certe bestie anche dopo morte possono tuttavia fuggire.
VI
Com’è varia l’aria! Su quella rupe dev’esserci un grande uccello morto squarciato da una palla. Non capisco perché andò ad olezzare lassù! Avrei voluto arrampicarmi a lui e tentai ma fui richiamato. Gli uomini che sentono da lontano non sanno che io devo poter avvicinarmi agli oggetti per intenderli meglio.
Il padrone, un giorno, colpì un piccolissimo uccello ed io glielo portai. Palpitava ancora giocondamente nella mia bocca, ma era tanto minuscolo che pareva un mucchietto di piume animato. Il padrone lo prese in mano e lo gettò via. Poi cadde la neve e noi non si uscì per varii giorni. Quando si ripassò per di là io trassi dalla neve l’uccellino che m’aveva richiamato col suo odore squisito oltre il fitto mantello che lo copriva. Lo presi in bocca e lo portai trionfante al padrone. Ma il padrone non voleva che quell’odore fosse tolto di là e mi picchiò finché non apersi la bocca e non lasciai andare la preda.
Quando il padrone non c’era e perciò non gl’importava io ritornavo a quell’uccellino. Oramai non aveva che piume e penne e la testina tondeggiante era priva d’occhi e reclinata nel riposo. Odorava come da vivo ma tanto più forte! Certo la sua vita è ora più forte ed esso si raccoglie nel riposo a formare un uccello più grande. Non sarà più l’uccellino dal volo tanto tenue che poté esser interrotto da un pallino di piombo stornato da un ramo d’albero. Sarà un uccello enorme e un giorno spiccherà il volo portando per l’aria il suo vivo dolore. E per abbatterlo, non basterà più un pallino ma occorrerà colpirlo al cuore come il mio padrone sa. E verrà giù colle ali ripiegate e la testa reclinata sotto il corpo a cercare nuovo riposo e nuova vita.
VII
L’uomo è un animale molto più semplice del cane perché sente di più e più facilmente. Quando incontra un altro uomo gli tocca la mano e sembrerebbe quasi di non curarsi di quanto sta dietro di questa mano. Invece Argo quando incontra un altro cane avvicina prudentemente la parte dentata del proprio corpo e quella sdentata dell’altro ed annusa. Sorveglia e subito minaccia. Poi l’altro, se è un buon diavolo, deve dimostrare la sua fiducia e abbandonare il dosso ad Argo che lo investighi tutto. Infine Argo trova equo sottoporsi alla stessa operazione anche lui. La difficoltà sorge quando nessuno dei due vuol essere il primo a concedersi inerme alla visita e si finisce con l’addentarsi. Talvolta anche la visita pur iniziata con una benevolenza reciproca può finir male. E allora è difficile dire perché scoppiò la lotta. Si tratta di un odore nemico che raggiunge improvvisamente il tuo naso e ti sconvolge la mente per l’odio. “Ti trovo infine?” ci si domanda aggredendo con voluttà. E c’è il dubbio che non si tratti proprio di quello lì, ma l’odore è proprio quello: Nemico e spiacevole. E quando c’è l’odore l’errore non è possibile o almeno ci vorrebbe molto tempo per sapere meglio mentre non è prudente aspettare d’essere aggredito. L’odore parla chiaro: Impone di aggredire o anche ti fa prevedere l’imminente aggressione ciò ch’è lo stesso. Quando, poi, si comincia ad addentarsi, i dubbi scompaiono. Forse le ferite giovano alla chiarezza. Il sangue zampillante grida le sue intenzioni.
Io atterrai, un giorno, un cane e l’avrei strangolato se il padrone non fosse sopravvenuto. Incontrai di nuovo quel cane un giorno che il padrone non c’era e volontieri l’avrei assaltato. Ma egli si gettò a terra con le zampe all’aria ed io lo risparmiai trovando che il suo odore era mutato, ciò che prova che una buona lezione serve anche agli odori. Da allora, ogni qualvolta lo incontro, si lascia mitemente investigare da me e trovo sempre il suo odore buono e amico. Ma io non mi lascio più annusare da lui. Non c’è scopo e sarebbe pericoloso perché io so che il mio odore non ha mutato.
Il cane da pastore che passa ogni giorno per di qua, se la prese con me, mi ribaltò e m’avrebbe azzannato al collo se non fossero intervenuti ambedue i padroni. Io mi rizzai tutto pesto e gridai tutto il fiato che avevo in corpo per l’ingiustizia che m’era stata fatta. Pensai anche che avrei trovata l’opportunità di vendicarmi perché non temevo quel cane e certamente avrei potuto difendermi ancora: Qualche volta è una buona astuzia di guerra quella di lasciarsi ribaltare ed essere di sotto donde il morso è più efficace. Invece quando un’altra volta lo vidi a me da canto pensai che non c’era scopo di lottare. Dall’odore potente che emanava da lui mi risultava piuttosto il desiderio di protezione che di lotta. È evidente che bisognava obbedire agli odori e mi gettai supino con le zampe all’aria ben sapendo ch’egli non avrebbe trovato in me alcuna malizia. Infatti mi lasciò in pace ma non mi permise che a mia volta lo investigassi. Non c’era infatti scopo! Avevo pur potuto già accertarmi che in lui non c’era malevolenza.

VIII
Ebbimo una visita: Un cane sperduto! Mi raccontò che spesso non mangiava ma che ogni giorno correva del tutto libero alla ventura. Deve essere bello andare sempre avanti, dietro gli olezzi; ma io non so figurarmi il mondo senza il mio padrone e per andare sempre avanti bisognerebbe abbandonarlo visto che gli uomini stanno molto fermi e aspettano che gli olezzi vengano a loro.
Simpatico compagno quel cane bianco, piccolo, dal pelo ricciuto. È vero che finché c’era l’avrei morso perché si faceva accarezzare dal padrone. Quando, però, andò via io mi trovai molto solo e il desiderio di riaverlo era tale che, se fosse ritornato non gli avrei più impedito di rubarmi delle carezze. Era fatto apposta per giocare. Si lasciava ribaltare senza resistenza perché aveva scoperto ch’era meno faticoso eppoi si ribaltava anche da solo inciampando sui tanti impedimenti che abbiamo in casa. Non ci era abituato agl’impedimenti perché la nostra casa è meno semplice del bosco.
Un’altra cosa cui non era abituato era di trattenersi dallo spargere degli olezzi per la casa. Ne ricevette di nerbate! E l’imbecille non arrivava a capire di che cosa si trattasse! Bastonato perché aveva scelto a luogo di sua comodità un cantuccio della stanza s’accomodò la prossima volta nel centro. Fu peggio! Finì che non osava neppure più all’aperto quando il padrone lo vedeva. «E come fai tu?» mi domandò molto impensierito. «Se continua così, per quanto bene mi trovi con voi, dovrò fuggire perché da me è una cosa molto imperiosa». Gli spiegai che il padrone non voleva ciò nella sua tana, ma che fuori anzi gli piaceva. Non volle credermi. Un giorno avvenne che pur dovette accomodarsi all’aperto in presenza del padrone. Non poté farne a meno! Quando dovette cedere alla necessità, nell’accomodarsi allungò il collo per sorvegliare più da vicino il padrone e si tenne pronto alla fuga ciò che rappresenta uno sforzo difficile quando si è inchiodati su un posto.
Poi, accertatosi della legge, mi domandò delle spiegazioni ed il curioso è che io non seppi dargliele. Ero certo che nella tana non si doveva (ed Argo non lo avrebbe fatto giammai) e fuori era permesso. Poi – poco prima di partire – il mio amico che ci pensava spesso indovinò: Nella tana gli olezzi non erano necessari perché nello spazio ristretto è ben facile dirigersi e trovare senza il loro soccorso. Gli olezzi non erano utili che all’aperto e il mio padrone sorvegliava che non andassero sprecati.
IX
La grande differenza fra l’uomo e il cane è che il primo non sa il piacere delle busse che cessano. Un giorno si camminava per la nostra strada quando una donna che aveva accompagnato fino ad allora il mio padrone si mise a percuoterlo con l’ombrello. Io digrignai i denti e volevo azzannarla. Ma il padrone me lo impedì e, tenendomi per il collare, si mise a correre. La donna non seppe raggiungerci ed io incominciai a saltellare intorno al padrone per associarmi alla sua gioia. Ma egli mi percosse violentemente con la frusta. Poi cessò, e a me parve proprio venuto il momento di festeggiare la cessazione delle busse per ambedue. Ne ebbi invece di nuove e devo perciò ritenere che quando gli uomini sono stati picchiati vogliono star quieti.
Fra il cane e l’uomo c’è un’altra grande differenza. L’uomo cambia d’umore ad ogni istante come una lepre furba di direzione. Invece ce ne vuol altro per far cambiare d’umore al cane. Talvolta Argo è lieto e vuol bene a tutti. Taglia l’aria con la coda perché in lui manca ogni sospetto e sa che non c’è nessuno che voglia pigliarlo per quella parte inerme. Poi è assalito da un dubbio: Forse qualcuno non gli vuol bene. Ma il dubbio è domato dalla sua coda che grida al vento: «Tutto va bene e sono tutti amici». È difficile frenarla se non si presenta l’evidente necessità di celarla fra le gambe. Ma l’uomo è un animale disgraziato perché non ha coda.
Un giorno io e il padrone, dopo pranzato, si stava quieti nella nostra tana quando venne Anna ad avvisare che c’erano delle visite. Il padrone urlò non so se dal piacere o dispiacere. Lo seppi o credetti di saperlo presto. Nel dubbio m’ero messo a scondinzolargli d’intorno ed egli mi diede un calcio. Ciò mi parve ragionevolissimo perché così appena potevo sapere quale umore fosse il suo, e mi trassi in disparte.
Si andò in giardino incontro ai visitatori ed io seguii il padrone naturalmente a ragionevole distanza. Se avessi potuto anzi ne avrei dato l’avviso anche ai visitatori ch’erano un uomo e una donna.
A mia sorpresa vedo il mio padrone correre ad incontrarli, inchinarsi e anche aprire la bocca e socchiudere gli occhi come usa quando è allegro visto che non ha coda. Evidentemente il suo umore s’era voltato del tutto eppure io potevo giurare che non gli era avvenuto nulla di nuovo. Non c’era ragione di non festeggiare un mutamento tanto favorevole e mi slancio per prendere parte alla festa e ricordare al padrone che visto che m’aveva dato un calcio ora avevo bisogno di carezze. Invece mi diede un calcio anche più violento del primo e la mia sorpresa fu pari al dolore.
Lo seguii a distanza e non potevo credere alla mia sventura perché egli oramai aveva già ricominciato ad aprire la bocca e socchiudere gli occhi parlando con i visitatori. Chi non avesse ricevuto quel calcio ch’era tuttavia impossibile dimenticare avrebbe creduto che il mio padrone fosse in piena gioia e bontà. E lo seguii per parecchio tempo da lontano incapace di credere alla mia sventura. E lo guardavo a ridere a sorridere e ad inchinarsi e sempre più mi convincevo che non si trattava d’altro che di un disgraziato malinteso. Io non so vivere in collera col mio padrone, e, dopo qualche esitazione, m’arrampicai timidamente su lui per accostarmi alla parte più lieta del suo corpo, la faccia. Con un violento pugno mi rovesciò e subito dopo continuò a scodinzolare con gli altri. Ne fui abbattutissimo. Egli cambiava d’umore proprio quando io arrivavo.
Quando i due visitatori se ne andarono, io accompagnai il padrone a ragionevole distanza fino alla porta, e quando vidi chiudersi questa sui seccatori, non seppi trattenermi e ringhiai. Quella visita m’era costata troppo ed io odiavo quella gente. Il padrone subito mi si accostò ed io temendo ch’egli volesse punirmi di quella minaccia ai suoi amici mi misi con la pancia a terra per evitare di cadere se egli mi avesse picchiato. Invece furono carezze e carezze. Nessuno crederà vera questa storia, eppure io la racconto proprio come mi è successa.

X
Mi legarono alla catena. Sospetto avessero qualche cosa di buono da mangiare e non volessero darne parte al povero Argo. Anna se ne andò senza più guardarmi mentre io le guardai dietro finché non scomparve nella casa sperando si pentisse della sua malvagità. Abbaiai per un po’ cercando di commuovere o di disturbare; ma nessuno si curò delle mie lagnanze.
Poi ebbi una sorpresa gradevole e dimenticai le mie sofferenze. Non ero solo alla catena. Forse la stessa buona Anna prima di andarsene per alleviare la mia posizione aveva lasciato accanto a me una vecchia scarpa. Una scarpa odorosa. L’uomo che l’aveva usata doveva aver camminato molto. In un cantuccio della scarpa c’era un chiodino che odorava di sangue rappreso. E non finivo più di rigirare quella scarpa. Poco per volta capisco che se l’oggetto non è vivo grida e da esso risuona la vita. Vita nemica o amica? Piuttosto nemica. Quando entrano in casa delle persone con scarpe tanto odorose io le scaccio perché sono troppo dissimili dagli odori cui son uso. Mi prende l’ira e mi metto a sbranare la scarpa che resiste. Resiste come se vivesse. Non è facile scioglierne le fibre. Ma ecco che riesco a ficcare il naso in posti prima inaccessibili e subito troneggia un altro odore. Più vecchio ma non meno chiaro. Faccio la pace con la scarpa perché il nuovo odore non è nemico e cesso di sbranarla. Scherzo con essa e le dò dei colpettini che la fanno balzare allegra, allegra. Si capisce che sbranare una scarpa simile è come correre libero pei campi. Una vista si alterna con l’altra e non c’è posto alla noia.
A un dato punto la scarpa ricevette un colpo troppo forte e cadde fuori del ristretto spazio cui la catena mi permette di accedere. È perduta per me e rientro nel dolore della schiavitù. Oh! Quando verranno a riprendermi? La scarpa olezza di nuovo da nemica, ora ch’è in salvo.
Quando dopo molte ore la vecchia Anna venne finalmente a liberarmi io non ebbi più voglia di fermarmi alla scarpa. Abbondanti effluvi arrivavano da ogni parte e mi chiamavano imperiosamente. Si vede che per gustare certe cose occorre la catena. Diedi una breve annusata alla scarpa e corsi via.
Purtroppo non ci pensai di riportarla nel posto accessibile quando mi trovo alla catena. Lo rimpiansi il giorno appresso soltanto quando mi trovai di nuovo solitario alla catena. E quando fui libero commisi di nuovo lo stesso errore di cui non m’avvidi che quando ritornai alla catena. Ma pensare alla catena quando si è liberi sarebbe come diminuire la grande gioia della libertà.
XI
Il padrone legge ed io sono accanto alla stufa. Questa tana è deliziosa. Al calore della stufa si riempie di olezzi. Il padrone deve preferire quella grande sedia per l’odore che emana. Su quella sedia molto tempo addietro un uomo deve essere divenuto sincero. Il suo sangue coperse la stoffa e colò a terra lungo una delle gambe di legno. Ma la sedia si trovava allora in quel cantuccio ove il pavimento odora. Di giorno, con le finestre aperte, si sente tuttavia l’odore che mormora debolmente. Di sera col calore della stufa essa grida: «Cercatemi!». Ed io cerco. Ma il corpo dell’uomo non deve giacere qui nelle vicinanze. Ed io lo cerco invano quel mio amico di ogni sera. Lo portarono purtroppo lontano.