CERTI ARGOMENTI di Giovanni Verga

C’era un aneddoto che dopo più di un anno, faceva ancora le spese della conversazione alla tavola rotonda dell’Albergo di Russia, a Napoli, quando i tre o quattro ospiti che tutti gli anni solevano trovarsi al medesimo posto, dal cominciar del novembre alla fine di maggio, rimanevano faccia a faccia, col sigaro in bocca e i gomiti sulla tovaglia.
A quella medesima tavola s’erano incontrati un tale Assanti, uomo elegante ed uomo di spirito, ed una signora Dal Colle, donna elegante e donna di spirito, un po’ civetta, capricciosa e bizzarra, sul conto della quale si raccontavano certe storielle singolari, ben inteso senza provarne una sola, e che veniva ad epoche fisse, come una rondine, da Baden, da Vienna o da Parigi. Tra i due commensali e vicini di tavola si era dichiarata una decisa e poco velata antipatia, non ostante che fossero entrambi persone assai bene educate, e scambiassero alle volte, il meno che potevano, degli atti e delle parole di cortesia. Una sera, dopo il caffè, Assanti, trovandosi nella sala dei fumatori, insieme a tre o quattro amici che parlavano della sua vicina, avea motivato la sua antipatia con un lusso di buon umore che aveva fatto rider tutti. Ad un tratto però si fece silenzio come per incanto, la signora Dal Colle passava nella sala contigua per andare a mettersi al pianoforte, come soleva fare qualche volta. – Ha udito tutto! – Non ha potuto udire! – dicevano sommessamente fra di loro quei signori. Il solo colpevole non se n’era preoccupato gran fatto. Si strinse nelle spalle, e disse ridendo: – Or ora vedremo se ha udito -.
La signora scartabellava dei quaderni di musica, e non voltava nemmeno la testa; Assanti le si avvicinò col più bell’inchino, e le domandò tranquillamente:
– Scusi, ha udito quel che dicevamo a proposito di lei? –
Ella gli piantò in faccia i due grand’occhi ben aperti, due occhi innocenti o traditori, e rispose colla massima disinvoltura:
– Scusi, perché mi fa questa domanda?
– Perché abbiamo scommesso d’indovinare quel che avrebbe suonato stassera -.
La donna sorrise, inchinò il capo, e incominciò a suonare la Bella Elena.
– Signori, – disse Assanti voltandosi verso i suoi amici, che rimanevano mogi e ingrulliti, – avete perduto -.
Infatti sembrava impossibile che una donna potesse restare così bene nei gangheri dopo avere udito tutto quel che si era detto nella sala dei fumatori; e, cosa strana, un po’ per la novità della cosa, un po’ per obbligo di cortesia, Assanti, discorrendo con la Dal Colle di musica e d’altro, avea osservato come più d’una volta cane e gatta si fossero trovati d’accordo, sicché il discorso era andato per le lunghe, e gli amici, ad uno ad uno, se l’erano sgattaiolata. – Non ha udito nulla! – pensava Assanti.
Ad un tratto, quando furono soli, cambiando improvvisamente accento e maniere, la Dal Colle domandò, puntandogli contro quegli occhi indiavolati:
– È contento che gli abbia fatto vincere la scommessa, mio signor nemico? –
Egli s’inchinò e stette coraggiosamente ad aspettar l’assalto.
– Perché ci facciamo la guerra? – riprese ella con un altro tono di voce.
– Perché ella mi faceva paura.
– Oh! oh! eccoci in piena galanteria! Ebbene, mio bel cavaliere, quando mi salterà in capo di vendicarmi ne incaricherò voi stesso. Ma francamente, non sarebbe stato meglio che fossimo andati d’accordo fin da principio?
– Facciamo la pace allora.
– Adesso è troppo tardi.
– Perché?
– Perché, perché… – disse alzandosi, – prima di tutto perché ora vi detesto – e poi perché fra due o tre settimane partirò.
– Vi seguirò.
– Dove?
– Dove andrete!
– Ma non lo so dove andrò; né lo saprete voi. Nemici dunque -.
Assanti la salutò ridendo, ma dovette convenire che la sua graziosa nemica poteva avere tutti i difetti, all’infuori di uno.
Il domani, mentre si vestiva per andare a pranzo, trovò sul tavolino un biglietto scritto da mano sconosciuta.
«Venite al n. 11, a mezzanotte. Non bussate. »
Egli si mise a ridere, e disse fra di sé:
– Non v’è dubbio, ha udito tutto; ma il tranello è troppo grossolano per una donna di spirito! che peccato! –
La signora Dal Colle non era venuta a tavola. Assanti sorrise più di una volta sotto i baffi volgendo gli occhi a quel posto vuoto. Dopo desinare andò a teatro, e non ci pensò più.
Finita l’opera, passò una mezz’ora al caffè di Europa, e quando tornò all’albergo il gas era spento. Passando pel corridoio, dinanzi all’uscio di quel famoso numero undici, si rammentò un’altra volta del biglietto che avea in tasca e involontariamente rallentò il passo.
Si mise alla finestra, fumò il suo sigaro, lesse il suo giornale, e poi andò a letto. Il letto era duro ed uggioso insolitamente quella notte; faceva caldo, e Assanti avea un bel voltarsi e rivoltarsi senza poter chiudere occhio.
Quelle due linee sottili che teneva chiuse nel portafogli posto sulla tavola a capo del letto, sgusciavano fuori della busta, s’allungavano serpeggiando in ghirigori per le pareti, gli si attortigliavano alle sbarre del cortinaggio, s’insinuavano sotto l’uscio, e guizzavano pel corridoio oscuro, lasciando sul tappeto una striscia fosforescente.

Spense il lume, lo riaccese, rilesse il bigliettino, stavolta senza ridere, ché l’odore del foglietto profumato gli dava alla testa, spense il lume di nuovo per addormentarsi, e fu peggio di prima; nelle tenebre faceva sogni stravaganti ad occhi aperti; vedeva quell’uscio del numero undici socchiuso, una forma bianca che sporgeva la testa dal vano, e quella donna, per la quale il giorno innanzi non avrebbe mosso un dito, ora che gli era passata pel capo sotto altro aspetto, un solo istante, per ischerzo, assumeva forme e sorrisi affascinanti. Il sangue gli martellava nelle vene. Finalmente si vestì a guisa di sonnambulo, quasi non avesse coscienza di quel che facesse; arrivò a mettere la mano sulla maniglia dell’uscio, e tornò a cacciarsi frettolosamente fra le coltri, vergognoso della ridicola tentazione alla quale avea ceduto con facilità inesplicabile, come se la sua nemica avesse potuto vederlo e dargli la baia. La notte dormì male, e si levò di cattivo umore.
All’ora del pranzo trovò la Dal Colle al suo solito posto, gaia e disinvolta come se nulla fosse stato, e civetta più che mai. Non gli fece l’onore di accorgersi menomamente di lui, e una volta gli lanciò a bruciapelo uno sguardo schernitore che avrebbe fatto montare la mosca al naso ad un uomo meno padrone di sé dell’Assanti. Egli si era fatto il suo piano di rappresaglie e di allusioni pungenti, ma aspettò inutilmente tutta la sera nel salotto dove la Dal Colle soleva far della musica. A poco a poco, a suo dispetto, quel sangue freddo, quella sicurezza, quella disinvoltura, lo dominavano e lo facevano arrabbiare.
Evidentemente costei che l’aveva vinto con la burla più grossolana del mondo era più forte di lui; sapeva che sarebbe bastato un nonnulla, un cattivo scherzo, per insinuarglisi tutta nelle fibre come una spina, impadronirsene, metterlo sossopra, e agitarlo co’ suoi menomi capricci.
Dopo che la Dal Colle si era data la soddisfazione di quella piccola vendetta da donna, sembrava non pensasse più ad Assanti, e si lasciava fare la corte da un certo barone Ciriani, il quale passava per un don Giovanni, inclusa la bravura e la fortuna di duellista; ora ad Assanti sembrava che la Dal Colle in quel lasciarsi corteggiare, così sotto i suoi occhi, ci mettesse dell’ostentazione, e questo lo seccava assai.
La furba sapeva al certo che si può fare a fidanza, toccando certi tasti, colla semplicità mascolina, s’avesse a fare coll’uomo più avveduto di questo mondo. Era bastata la lusinga più lontana, più sciocca, più inverosimile, perché Assanti si montasse la testa a poco a poco, sino a credere che i successi ottenuti dal Ciriani fossero rubati a lui, e che la civetteria di lei fosse un torto che gli si faceva. Il brillante giovanotto era ridotto alla più grulla figura possibile; cominciava ad accorgersene anche lui, ciò aumentava la sua stizza, e un dispetto ne chiamava un altro, sino a fargli perdere la tramontana; sicché alla sua volta intraprese contro il Ciriani un sistema di ostilità così poco velate, e di provocazione così diretta, che non ci volle meno di tutta l’abilità della donna per scongiurare il pericolo di un serio guaio.
Finalmente ella parve stanca della lotta che dovea sostenere con Assanti quotidianamente, e prendendolo una sera a quattr’occhi nel vano della finestra, dissegli:
– Orsù, mio bel nemico, a che giuoco giuochiamo? Con qual diritto ad ogni momento vi gettate a testa bassa fra me e il Ciriani?
– Con qual diritto mi fate questa domanda? – ribatté Assanti.
– Parliamoci chiaro. Voi mi eravate debitore di una piccola soddisfazione di amor proprio, ed io ho ottenuto il mio intento col mezzo più semplice. Non vi ho fatto il torto di pensare che avreste preso sul serio il mio biglietto, ho reso sempre giustizia al vostro spirito, e del resto nemmeno un ragazzo di scuola ci sarebbe cascato; ma eccovi lì, fra vergognoso, bizzoso, e incapricciato, e questo deve bastarmi. Ora siamo pari; lasciatemi tranquilla, caro mio; Ciriani non c’entra.
– Ce lo tireremo pei capelli!
– Impresa arrischiata! Sapete che come duellista ha una brutta riputazione.
– Ebbene, – esclamò Assanti un po’ rosso in viso, – se mi gettassi attraverso cotesta riputazione, mi perdonereste?
– La storia del biglietto? Per chi mi prendete, caro signore, cercando di scambiarmi le carte in mano?
– Non ridete così, in fede mia! Son qui, dinanzi a voi, ridotto ad arrossire di quel che ho fatto e detto contro di voi; mi sento ridicolo, deve bastarvi.
– Ridicolo, perché?
– Perché vi amo.
– Da quando in qua?
– Dacché mi ci avete fatto pensare.
– Dacché siete indispettito contro di me allora?
– Non so se sia amore o dispetto, so che così non può durare, che voi m’avete stregato, e che finirete per farmi impazzire.
– Oibò! –
Assanti rimase zitto un istante, di faccia al sorriso mordente della Dal Colle; poi riprese, cambiando tono e maniere, e facendosi improvvisamente serio. – Orsù, bisogna fare qualche cosa perché prestiate fede a quel che vi dico. Bisogna provocare Ciriani e rendermi ridicolo completamente.
– Guardatevene bene! – diss’ella senza ridere più. – Detesto gli scandali, e non mi vedreste mai più, né voi, né lui! –
La signora Dal Colle faceva i preparativi per la partenza; Assanti venne a saperlo il giorno dopo.
– Partite? – le disse.

– Sì: fuggo. Siete soddisfatto? Facciamo la pace prima di lasciarci.
– No, facciamo di meglio: ditemi dove andrete. Noi siamo qualcosa più di due semplici conoscenze, siamo due nemici; siamo liberi entrambi e padroni di noi; entrambi scorrazziamo pel mondo onde fuggire la noia. C’incontreremo in tutte le stazioni, ci faremo dei dispetti, ci faremo la guerra, ci odieremo, e così non avremo il tempo di annoiarci.
– No, no! E il pericolo d’innamorarsi lo contate per nulla?
– Anche voi?
– Sì, mi par di sì, dopo quello che mi avete detto ieri sera.
– Ebbene! alla peggio!…
– Non la prendete così; parlo sul serio, e sapete che sono franca.
– In tal caso franchezza per franchezza… Chiudete gli occhi e lasciate fare al pericolo.
– Ci penserò.
– … Ci ho pensato, – gli disse il giorno dopo, poche ore prima di partire all’insaputa di lui. – No, sarebbe peggio di una disgrazia, sarebbe una sciocchezza. È un gran brutto affare, due amanti che un giorno o l’altro possano ridersi sul naso! e questo giorno arriverebbe, a meno di un miracolo… poiché bisognerebbe proprio un miracolo! qualcosa di grosso! un atto di eroismo, una grande azione o una grande follia, per scongiurare cotesto pericolo… e come io non farò mai nulla di tutto questo, né voi lo farete, né voglio che lo facciate, così… nemici!
– Chi vi dice che non lo farò?
– Davvero?… Mi par di essere in piena cavalleria!… Ebbene, allora!… Intanto a rivederci -.
Il giorno dopo non si vide né alla tavola rotonda, né altrove. Assanti seppe che era partita, e che anche il Ciriani era partito.
Quella notizia gli fece ardere il sangue nelle vene come se l’avessero schiaffeggiato. Ogni minima parola, ogni sorriso, ogni inflessione di voce di lei, nell’ultimo colloquio che avevano avuto, gli tornava alla mente, con acute punture di dispetto, di gelosia, ed anche d’amore. Dal momento che era fuggita con un altro, quella donna eragli divenuta diabolicamente necessaria, per tutto quello che non era stato, per tutto quello che s’era detto fra di loro. Allora cotesto eroe da salone, per puntiglio o per vanità, si sentì capace di quelle virtù eroiche da palcoscenico, delle quali ella si era promessa in premio.
Avrebbe voluto acciuffarsi con dieci Ciriani; avrebbe voluto traversare un villaggio in fiamme sulla punta dei suoi stivalini verniciati, recandosi lei sulle braccia; avrebbe voluto saltare un precipizio di mezza lega per salvarla, senza fare uno strappo ai suoi pantaloni di Lennon. Si sentiva invaso da una specie di febbre. Partì sulle tracce di lei; gettò il denaro a due mani; viaggiò notte e giorno, in ferrovia, in carrozza e a cavallo, con un tempaccio da lupi, in mezzo alle selvagge solitudini per le quali correva la linea di Foggia, allora incompleta, col pericolo di cadere di momento in momento nelle mani dei briganti che scorrazzavano per quelle parti.
Finalmente ebbe le prime notizie della Dal Colle ad Ariano; ella viaggiava in carrozza, seguita dai suoi domestici, senza l’ombra di un Ciriani. Prima di annottare, una o due poste prima di Bovino, l’oste ed il conduttore cercarono di dissuaderlo di andare innanzi, perché la campagna era infestata dai briganti. Fu come se gli avessero messo il diavolo addosso. Lei era in pericolo: non pensava ad altro. La notte istessa, poco dopo Bovino, raggiunse le due carrozze colle quali ella viaggiava, ferme dinanzi ad un povero casolare che era la posta dei cavalli. Il lanternino appeso all’uscio era stato fracassato da mano invisibile; la porta era spalancata, e la stalla vuota.
I postiglioni avevano chiamato e strepitato senza che comparisse alcuno. Assanti da lontano gridava di non andare avanti: uno dei postiglioni temendo d’essere inseguito dai briganti gli sparò addosso una pistolettata senza colpirlo.
– Fermatevi, – ripeté Assanti. – Fermatevi, in nome di Dio! o siete perduti -.
Allo sportello di una delle due carrozze si vide dietro il cristallo, al riflesso incerto dei fanali, il viso un po’ pallido della Dal Colle. Ella riconobbe Assanti in mezzo a quella scena di confusione e di spavento, e gridò al cocchiere con accento febbrile:
– Avanti! avanti! duecento lire di mancia!
– Avanti ci sono i briganti! – gridò il giovane quasi fuori di sé.
In quell’istante, senza che si vedesse anima viva, si udì una voce che sembrava venire da una rupe che sovrastava il lato sinistro della via.
– Fermi tutti!… o per la Madonna! siete morti! –
Il cocchiere applicò una vigorosa frustata ai cavalli che puntarono zampe ed inarcarono le schiene per slanciarsi al galoppo; ma prima che avessero fatto un sol passo si udì un colpo di fucile ed il cavallo di sinistra cadde imbrogliandosi nei finimenti; il cocchiere si buttò da cassetta e sparì nelle tenebre; la seconda carrozza, quella in cui erano i domestici della Dal Colle, voltò indietro, e fuggì a rotta di collo. Tutto ciò era avvenuto in meno che non ci vuole per dirlo. Assanti si slanciò allo sportello della vettura, afferrò la donna per la vita come una bambina, la spinse nella stalla e ne chiuse la porta alla meglio, ammucchiandovi contro tutto quel che poté trovare. Al primo trambusto di quella scena era succeduto un silenzio profondo e misterioso; gli assalitori, prima di scendere nella strada, volevano al certo misurare la resistenza che avrebbero incontrata.

La Dal Colle, ritta in un angolo, non diceva una sola parola, e Assanti, rivolto verso l’uscio, colla cabina a due colpi in pugno, aspettava. Come si furono abituati all’oscurità, scorsero, alla fioca luce dei fanali della carrozza che trapelava dalle commessure mal connesse dell’uscio, una scala a piuoli, la quale dal fondo della stalla metteva per una botola al fienile soprastante. Sulla strada si cominciava ad udire un tramestio attorno alla carrozza, rimasta dinanzi al casolare. Assanti fece salire la sua compagna al piano di sopra, e quando fu salito anche lui, tirò su la scala. Al difuori durava ancora il silenzio, e di quando in quando il cavallo rimasto in piedi, scuoteva la sonagliera.
– Voi mi scaricherete la vostra carabina alla testa se dovessi cader viva nelle mani di coloro! – furono le prime parole che la donna gli rivolse con voce breve e febbrile.
– Sì! – rispose Assanti collo stesso tono.
Egli era corso alla finestra; non si vedeva nessuno; la carrozza era sempre ferma dinanzi all’uscio, descrivendo un breve cerchio di luce coi suoi due fanali; il cavallo fiutava con curiosità il compagno caduto. Ad un tratto si udì un secondo colpo di fucile, e dall’architrave della finestra, a due dita dal capo di Assanti, caddero dei calcinacci. La Dal Colle lo tirò indietro bruscamente. Allora per la prima volta i loro sguardi s’incontrarono. Ella era pallida come uno spettro, ma i suoi occhi erano sfavillanti.
All’improvviso la porta della stalla fu scossa da un urto che rimbombò come se l’avesse sconquassata. Assanti corse alla finestra e fece fuoco; si udì un grido, seguito da una scarica generale diretta contro di lui. Assanti si chinò sulla botola, mirò alla porta della stalla e fece fuoco una seconda volta. I briganti, a quei colpi di carabina che venivano dall’alto e dal basso, credettero di avere a fare con parecchi, decisi di vender cara la loro vita, e ricorsero ad un altro mezzo di attacco più sicuro e meno pericoloso. La fucilata cessò come per incanto.
Si udirono al di fuori rumori diversi, che da principio i due assediati non sapevano spiegarsi: un via vai, un risuonare di sonagliuoli dei cavalli, un muovere di ruote; poi rimbombò un secondo e forte urto alla porta della stalla, come se la carrozza vi fosse stata spinta contro a guisa d’ariete. Assanti trasalì per l’imminenza di un nuovo e sconosciuto pericolo; il cuore gli batteva forte. – Chi ci avrebbe detto che il miracolo di cui vi parlavo sarebbe stato così vicino! – disse la Dal Colle con uno strano sorriso. Ei le afferrò la mano ed ella non la ritirò.
In quel momento un riflesso rossastro si disegnò come una apparizione infernale di faccia alla porta, sulla parete nera della stalla. Il giovane, dimentico del pericolo passato per quello più grande che li minacciava, corse alla finestra, e la spalancò; le fiamme che bruciavano la carrozza e l’uscio della stalla illuminarono vivamente il fienile. – Cosa fanno adesso? – domandò la donna stringendosi a lui con mano tremante. – Bruciano la casa! – rispose Assanti con voce sorda. – Voi mi avete promesso che morremo insieme! – diss’ella dopo un minuto di silenzio.
Presso la finestra le travi del solaio cominciavano a scoppiettare, e le fiamme mostravano attraverso le assi le loro lingue azzurrognole che lambivano le pareti; il fumo annebbiava la stanzuccia e li soffocava. La donna guardava Assanti con occhi singolari.
– Vi siete perduto per me! – mormorò finalmente, con un accento di cui egli non avrebbe supposto capace quella donna leggiera.
– Vi amo! – egli rispose.
Allora in mezzo al fumo che li accecava, dinanzi alle fiamme che allungavano verso di loro lingue sitibonde, sotto una pioggia di faville infuocate, fra gli urli dei banditi che danzavano e sghignazzavano attorno a quell’orribile rogo, ella gli avvinse le braccia al collo, e posò la guancia sulla guancia di lui.
Tutt’a un tratto si udì sulla strada un gran tumulto, colpi di fuoco, urli di dolore, grida di collera. I carabinieri di Bovino avevano incontrato la carrozza colla quale erano scappati i domestici della Dal Colle, ed erano accorsi in fretta. Un brigadiere si precipitò fra le fiamme, e strappò i due amanti da quell’amplesso di morte.
Albeggiava appena. Assanti e la Dal Colle furono accompagnati a Bovino. Ella era pallidissima. Quando furono soli nella miglior stanza dell’albergo, gli stese la mano.
– Ora separiamoci.
– Come, separarci!…
– Abbiamo passato un bel momento, abbiamo realizzato il miracolo che sembrava impossibile alla tavola rotonda dell’Albergo di Russia. Non lo guastiamo! Siamo stati degli eroi, e siccome non potremmo aver sempre sottomano dei briganti per esaltarci, finiremo per trovarci ridicoli. Lasciamoci eroi dunque.
– Che donna siete mai?
– Mi dicono che sono una matta: ma mi accorgo che una matta è sempre più ragionevole dell’uomo più savio. Vediamo, amico mio, discorriamola ora che la stanchezza fa dar giù la febbre. In due settimane voi passate dall’antipatia all’entusiasmo; vi gettate a corpo perduto su di me, e mi fate il sacrificio della vostra vita, senza sapere se io ne sia degna. – È ragionevole cotesto? Avete fatto per me una bella azione, qualcosa che può toccare il cuore o la testa di una donna, e far mettere il cappuccio alle sue follie… non c’è che dire; ma siete certo che non abbiate fatto il sacrificio pel sacrificio? perché vi eravate montata la testa? più per voi che per me insomma? Siete persuaso che l’abbiate fatto schiettamente e semplicemente per amor mio?
– Qual altra prova ne vorreste?
– Una prova semplicissima: voi dite che mi amate?
– Sì.
– Non mi conoscete, non sapete chi sia, né da dove venga; non sapete se sia degna di voi, e se potrei amarvi come vorreste essere amato!…
– So che vi amo!
– Su dieci uomini, e dei più savi, nove risponderebbero come voi. E se vi amassi, sareste felice?
– Sì.
– E questa felicità vi basterebbe? Quanto vorreste che durasse?
– Sempre.
– Perché non mi sposate allora?
– … Ci penserò -.