GUERRA DI SANTI di Giovanni Verga

Tutt’a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt’intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradicie fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all’ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.
Tutto ciò per l’invidia di que’ del quartiere di San Pasquale, perché quell’anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c’era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d’oro, che pesava più d’un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava una «spuma d’oro» addirittura. Tutto ciò urtava maledettamente i nervi ai devoti di San Pasquale, sicché uno di loro alla fine smarrì la pazienza, e si diede a urlare, pallido dalla bile: – Viva San Pasquale! – Allora s’erano messe le legnate.
Certo andare a dire «viva San Pasquale» sul mostaccio di San Rocco in persona è una provocazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio. In tal caso non c’è più né cristi né diavoli, e si mette sotto i piedi quel po’ di rispetto che si ha anche per gli altri santi, che infine fra di loro son tutt’una cosa. Se si è in chiesa, vanno in aria le panche; nelle processioni piovono pezzi di torcetti come pipistrelli, e a tavola volano le scodelle.
– Santo diavolone! – urlava compare Nino, tutto pesto e malconcio. – Voglio un po’ vedere chi gli basta l’anima di gridare ancora «viva San Pasquale! ».
– Io! – rispose furibondo Turi il «conciapelli» il quale doveva essergli cognato, ed era fuori di sé per un pugno acchiappato nella mischia, che lo aveva mezzo accecato. – Viva San Pasquale, sino alla morte!
– Per l’amor di Dio! per l’amor di Dio! – strillava sua sorella Saridda, cacciandosi tra il fratello ed il fidanzato, ché tutti e tre erano andati a spasso d’amore e d’accordo sino a quel momento.
Compare Nino, il fidanzato, vociava per ischerno:
– Viva i miei stivali! viva san stivale!
– Te’! – urlò Turi colla spuma alla bocca, e l’occhio gonfio e livido al pari d’un petronciano. – Te’, per San Rocco, tu dei stivali! Prendi! –
Così si scambiarono dei pugni che avrebbero accoppato un bue, sino a quando gli amici riuscirono a separarli, a furia di busse e di pedate. Saridda, scaldatasi anche lei, strillava – viva San Pasquale -, che per poco non si presero a ceffoni collo sposo, come fossero già stati marito e moglie. – In tali occasioni si accapigliano i genitori coi figliuoli, e le mogli si separano dai mariti, se per disgrazia una del quartiere di San Pasquale ha sposato uno di San Rocco.
– Non voglio sentirne parlare più di quel cristiano! – sbraitava Saridda, coi pugni sui fianchi, alle vicine che le domandavano come era andato all’aria il matrimonio. – Neanche se me lo danno vestito d’oro e d’argento, sentite!
– Per conto mio Saridda può far la muffa! – diceva dal canto suo compare Nino, mentre gli lavavano all’osteria il viso tutto sporco di sangue. – Una manica di pezzenti e di poltroni, in quel quartiere di conciapelli! Quando m’è saltato in testa d’andare a cercarmi colà l’innamorata dovevo essere ubriaco.
– Giacch’è così! – aveva conchiuso il sindaco – e non si può portare un santo in piazza senza legnate, che è una vera porcheria, non voglio più feste, né quarant’ore! e se mi mettono fuori un moccolo, che è un moccolo! li caccio tutti in prigione.
La faccenda poi s’era fatta grossa, perché il vescovo della diocesi aveva accordato il privilegio di portar la mozzetta ai canonici di San Pasquale, e quelli di San Rocco, che avevano i preti senza mozzetta, erano andati fino a Roma, a fare il diavolo ai piedi del Santo Padre, coi documenti in mano, su carta bollata e ogni cosa; ma tutto era stato inutile, giacché i loro avversari del quartiere basso, che ognuno se li rammentava senza scarpe ai piedi, s’erano arricchiti come porci, colla nuova industria della concia delle pelli, e a questo mondo si sa, che la giustizia si compra e vende come l’anima di Giuda.
A San Pasquale aspettavano il delegato di monsignore, il quale era un uomo di proposito, che ci aveva due fibbie d’argento di mezza libra l’una alle scarpe, chi l’aveva visto, e veniva a portare la mozzetta ai canonici; perciò avevano scritturato anche loro la banda, per andare ad incontrare il delegato di monsignore tre miglia fuori del paese, e si diceva che la sera ci sarebbero stati i fuochi in piazza, con tanto di «Viva San Pasquale» a lettere di scatola.
Gli abitanti del quartiere alto erano quindi in gran fermento, e alcuni, più eccitati, mondavano certi randelli di pero e di ciliegio grossi come stanghe, e borbottavano:
– Se ci dev’essere la musica, si ha da portar la battuta! –
Il delegato del vescovo correva un gran pericolo di uscirne colle ossa rotte, dalla sua entrata trionfale. Ma il reverendo, furbo, lasciò la banda ad aspettarlo fuor del paese, e a piedi, per le scorciatoie, se ne venne pian piano alla casa del parroco, dove fece riunire i caporioni dei due partiti.
Come quei galantuomini si trovarono faccia a faccia, dopo tanto tempo che litigavano, cominciarono a guardarsi nel bianco degli occhi, quasi sentissero una gran voglia di strapparseli a vicenda, e ci volle tutta l’autorità del reverendo, il quale s’era messo per la circostanza il ferraiuolo di panno nuovo, per far venire i gelati e gli altri rinfreschi senza inconvenienti.
– Così va bene! – approvava il sindaco col naso nel bicchiere, – quando mi volete per la pace, mi ci trovate sempre -.
Il delegato disse infatti ch’egli era venuto per la conciliazione, col ramoscello d’ulivo in bocca, come la colomba di Noè, e facendo il fervorino andava distribuendo sorrisi e strette di mano, dicendo a tutti: – Loro signori favoriranno in sagrestia, a prendere la cioccolata, il dì della festa.

– Lasciamo stare la festa, – disse il vicepretore, – se no, nasceranno degli altri guai.
– I guai nasceranno se si fanno di queste prepotenze, che uno non è più padrone di spassarsela come vuole, spendendo i suoi denari! – esclamò Bruno il carradore.
– Io me ne lavo le mani. Gli ordini del governo sono precisi. Se fate la festa mando a chiamare i carabinieri. Io voglio l’ordine.
– Dell’ordine rispondo io – sentenziò il sindaco, picchiando in terra coll’ombrella, e girando lo sguardo intorno.
– Bravo! come se non si sapesse che chi vi tira i mantici in Consiglio è vostro cognato Bruno! – ripicchiò il vicepretore.
– E voi fate l’opposizione per la picca di quella contravvenzione del bucato che non potete mandar giù!
– Signori miei! signori miei! – andava raccomandando il delegato. – Così non facciamo nulla.
– Faremo la rivoluzione, faremo! – urlava Bruno colle mani in aria.
Per fortuna, il parroco aveva messo in salvo, lesto lesto, le chicchere e i bicchieri, e il sagrestano era corso a rompicollo a licenziare la banda, che, saputo l’arrivo del delegato, accorreva a dargli il benvenuto, soffiando nei corni e nei tromboni.
– Così non si fa nulla! – borbottava il delegato; e gli seccava pure che le messi fossero già mature, di là delle sue parti, mentre ei se ne stava a perdere il suo tempo con compare Bruno e col vicepretore, che volevano mangiarsi l’anima.
– Cos’è questa storia della contravvenzione pel bucato?
– Le solite prepotenze. Ora non si può sciorinare un fazzoletto da naso alla finestra, che subito vi chiappano la multa. La moglie del vicepretore, fidandosi che suo marito era in carica, – sinora un po’ di riguardo c’era sempre stato per le autorità, – soleva mettere ad asciugare sul terrazzino tutto il bucato della settimana, si sa… quel po’ di grazia di Dio!… Ma adesso, colla nuova legge, è peccato mortale, e son proibiti perfino i cani e le galline, e gli altri animali, con rispetto, che fino ad ora facevano la polizia delle strade. Alle prime pioggie, se Dio vuole, l’avremo sino al mostaccio, il sudiciume.
Il delegato del vescovo, per conciliare gli animi, stava inchiodato nel confessionario come una civetta, dalla mattina alla sera, e tutte le donne volevano essere confessate da lui, che ci aveva l’assoluzione plenaria per ogni sorta di peccati, quasi fosse stata la persona stessa di monsignore.
– Padre! – gli diceva Saridda col naso alla graticola del confessionario. – Compare Nino ogni domenica mi fa far peccati in chiesa.
– In che modo, figliuola mia?
– Quel cristiano doveva esser mio marito, prima che vi fossero queste chiacchiere in paese; ma ora che il matrimonio è rotto, si pianta vicino all’altar maggiore, per guardarmi, e ridere coi suoi amici, tutto il tempo della messa -.
E come il reverendo cercava di toccare il cuore a compare Nino:
– È lei piuttosto che mi volta le spalle, quando mi vede, quasi fossi uno scomunicato! – rispondeva il contadino.
Egli invece, se la gnà Saridda passava dalla piazza la domenica, affettava di esser tutt’uno col brigadiere, o con qualche altro pezzo grosso, e non si accorgeva nemmeno di lei. Saridda era occupatissima a preparare lampioncini di carta colorata, e glieli schierava sul naso, lungo il davanzale, col pretesto di metterli ad asciugare. Una volta che si trovarono insieme in un battesimo, non si salutarono nemmeno, come se non si fossero mai visti, e anzi Saridda fece la civetta col compare che aveva battezzata la bambina.
– Compare da strapazzo! – sogghignava Nino. – Compare di bambina! Quando nasce una femmina si rompono persino i travicelli del tetto -.
E Saridda, fingendo di parlare colla puerpera:
– Tutto il male non viene per nuocere. Alle volte, quando vi pare d’aver perso un tesoro, dovete ringraziar Dio e San Pasquale! ché prima di conoscere bene una persona bisogna mangiare sette salme di sale.
– Già, le disgrazie bisogna pigliarle come vengono; il peggio è guastarsi il sangue per cose che non ne valgono la pena. Morto un papa, se ne fa un altro -.
In piazza suonava il tamburo, quello della meta.
– Il sindaco dice che vi sarà la festa, – sussurravano nella folla.
– Litigherò sino alla consumazione dei secoli! Mi ridurrò povero e in camicia come il Santo Giobbe, ma quelle cinque lire di multa non le pagherò, dovessi lasciarlo nel testamento!
– Sangue d’un cane! che festa vogliono fare se quest’anno morremo tutti di fame? – esclamava Nino.
Sin dal mese di marzo non pioveva una goccia d’acqua, e i seminati, gialli, che scoppiettavano come l’esca «morivano di sete». Bruno il carradore diceva invece che appena San Pasquale esciva in processione pioveva di certo. Ma che gliene importava della pioggia a lui, se faceva il carradore, e a tutti gli altri conciapelli del suo partito?…
Infatti portarono San Pasquale in processione a levante e a ponente, e l’affacciarono sul poggio, a benedir la campagna, in una giornata afosa di maggio, tutta nuvoli – una di quelle giornate in cui i contadini si strappano i capelli dinanzi ai campi «bruciati», e le spighe chinano il capo proprio come se morissero.

– San Pasquale maledetto! – gridava Nino sputando in aria, e correndo come un pazzo pel seminato. – M’avete rovinato, San Pasquale ladro! Non mi avete lasciato altro che la falce per tagliarmi il collo! –
Nel quartiere alto era una desolazione: una di quelle annate lunghe, in cui la fame comincia a giugno, e le donne stanno sugli usci, spettinate e senza far nulla, coll’occhio fisso. La gnà Saridda, all’udire che si vendeva in piazza la mula di compare Nino, onde pagare il fitto della terra che non aveva dato nulla, si sentì sbollire la collera in un attimo, e mandò in fretta e in furia suo fratello Turi, con quei soldi che avevano da parte, per aiutarlo.
Nino era in un canto della piazza, cogli occhi astratti e le mani in tasca, mentre gli vendevano la mula, tutta in fronzoli e colla cavezza nuova.
– Non voglio nulla – ei rispose torvo. – Le braccia mi restano ancora, grazie a Dio! Bel santo, quel San Pasquale, eh! –
Turi gli voltò le spalle per non finirla brutta, e se ne andò. Ma la verità era che gli animi si trovavano esasperati, ora che San Pasquale l’avevano portato in processione a levante e a ponente con quel bel risultato. Il peggio era che molti del quartiere di San Rocco si erano lasciati indurre ad andare colla processione anche loro, picchiandosi come asini, e colla corona di spine in capo, per amor del seminato. Ora poi si sfogavano in improperi, tanto che il delegato di monsignore aveva dovuto battersela a piedi e senza banda, com’era venuto.
Il vicepretore, per prendersi una rivincita sul carradore, telegrafava che gli animi erano eccitati, e l’ordine pubblico compromesso; sicché un bel giorno si udì la notizia che nella notte erano arrivati i Compagni d’Arme, e ognuno poteva andare a vederli nello stallatico.
– Son venuti pel colera, – dicevano però degli altri. – Laggiù nella città la gente muore come le mosche -.
Lo speziale mise il catenaccio alla bottega, il dottore scappò il primo di tutti, perché non l’accoppassero.
– Non sarà nulla, – dicevano quei pochi rimasti in paese, che non erano potuti fuggire qua e là per la campagna. – San Rocco benedetto lo guarderà il suo paese! e il primo che va in giro di notte gli faremo la pelle! –
E anche quelli del quartiere basso erano corsi a piedi scalzi nella chiesa di San Rocco. Però di lì a poco i colerosi cominciarono a spesseggiare come i goccioloni grossi che annunziano il temporale – e di questo dicevasi ch’era un maiale, e aveva voluto morire per fare una scorpacciata di fichidindia – e di quell’altro che era tornato da campagna a notte fatta. Insomma il colera era venuto bello e buono, malgrado la guardia, e alla barba di San Rocco, nonostante che una vecchia in odore di santità avesse sognato che San Rocco in persona le diceva:
– Del colera non abbiate paura, che ci penso io, e non sono come quel disutilaccio di San Pasquale -.
Nino e Turi non si erano più visti dopo l’affare della mula; ma appena il contadino intese dire che fratello e sorella erano malati tutti e due, corse alla loro casa, e trovò Saridda nera e contraffatta, in fondo alla stanzuccia, accanto a suo fratello il quale stava meglio, lui, ma si strappava i capelli e non sapeva più che fare.
– Ah! San Rocco ladro! – si mise a gemere Nino. – Questa non me l’aspettava! O gnà Saridda, che non mi conoscete più? Nino, quello di una volta? –
La gnà Saridda lo guardava con certi occhi infossati che ci voleva la lanterna a trovarli, e Nino ci aveva due fontane ai suoi occhi. – Ah, San Rocco! – diceva lui, – questo tiro è più birbone di quello che ci ha fatto San Pasquale!
Però la Saridda guarì, e mentre stava sull’uscio, col capo avvolto nel fazzoletto, gialla come la cera vergine, gli andava dicendo:
– San Rocco mi ha fatto il miracolo, e dovete venirci anche voi a portargli la candela per la sua festa -.
Nino, col cuore gonfio, diceva di sì col capo; ma intanto aveva preso il male anche lui, e stette per morire. Saridda allora si graffiava il viso, e diceva che voleva morire con lui, e si sarebbe tagliati i capelli e glieli avrebbe messi nel cataletto, ché nessuno l’avrebbe più vista in faccia, finché era viva.
– No! no! – rispondeva Nino, col viso disfatto. – I capelli torneranno a crescere; ma chi non ti vedrà più sarò io, che sarò morto.
– Bel miracolo che ti ha fatto San Rocco! – gli diceva Turi, per consolarlo.
E tutti e due, convalescenti, mentre si scaldavano al sole, colle spalle al muro e il viso lungo, si gettavano in viso l’un l’altro San Rocco e San Pasquale.
Una volta passò Bruno il carradore, che tornava di fuori a colera finito, e disse:
– Vogliamo fare una gran festa, per ringraziare San Pasquale di averci salvati tutti quanti siamo. D’ora innanzi non ci saranno più arruffapopoli, né oppositori, ora che è morto quel vicepretore che ha lasciato la lite nel testamento.
– Sì, faremo la festa per quelli che son morti! – sogghignò Nino.
– E tu che sei vivo per San Rocco forse?
– La volete finire, – saltò su Saridda, – che poi ci vorrà un altro colera, per far la pace! –