Parafrasi COMPLETA canto 34 (XXXIV) del poema Orlando Furioso

Parafrasi COMPLETA del Canto 34 (XXXIV) del poema Orlando Furioso – Il canto è interamente dedicato all’episodio noto come Astolfo sulla Luna. Il paladino Astolfo raggiunge il paradiso terrestre in sella al cavallo alato Ippogrifo e da qui viene accompagnato da San Giovanni sui monti della Luna, dove poter ritrovare il senno perso dal paladino Orlando.

Leggi il testo del canto 34 (XXXIV) del poema Orlando Furioso

1
Oh fameliche, ingiuste e feroci arpie (gente straniera)
che per l’Italia accecata e piena di ogni sbaglio,
forse per punire antiche e malvagie colpe,
la giustizia divina conduce in ogni mensa!
Ragazzini innocenti e madri devote
non si reggono in piedi dalla fame, e vedono che in una sola cena
questi mostri malvagi divorano completamente
ciò che sarebbe il sostegno per il loro vivere.

2
Commise un grosso errore colui che aprì la grotta (le frontiere)
dove già da molti anni erano state loro rinchiuse;
grotta dalla quale emerse il fetore e l’ingordigia,
che si diffuse poi per l’Italia rendendola infetta.
Il bel vivere a quel punto si sommerse;
e la quiete fu in tal modo lasciata fuori,
che in guerre, in povertà ed in ansia
l’Italia è stata continuamente dopo, e ci starà per ancora molti anni:

3
fino a che un giorno, ai figli indolenti, pigri,
non scuterà, prendendoli per i capelli, la testa e li strapperà così al letargo,
gridando loro: “Non ci sarà chi cerchi emulare
il valore di Calai e Zete?
che dal puzzo e dagli artigli delle arpie
liberi le mense, e le faccia così tornare liete e pulite come erano prima,
così come essi (Calai e Zete) fecero con le arpie di Fineo, e dopo di loro
fece il paladino con quelle del re di Etiopia.”

4
Il paladino con l’orribile suono, del corno fatato, continuò
ad inseguire le brutte arpie, in fuga e sconfitte,
finché si fermò ai piedi di un monte,
là dove esse erano entrate in una grotta.
Tenne le orecchie attente verso ogni suono proveniente dall’apertura,
e sentì quindi l’aria della grotta percossa e rotta
da pianti, urla e da continui ed eterni lamenti:
indizi evidenti che lì si trovava l’Inferno.

5
Astolfo decise di entrarvi dentro,
e vedere coloro che hanno perso la vita, la luce del giorno,
e penetrare nella terra fino al suo centro,
ed aggirarsi per i gironi dell’Inferno.
Diceva: “Che cosa devo temere entrando nell’Inferno,
potendomi sempre aiutare con il corno fatato?
Farò fuggire Plutone e Satana
ed il cane a tre teste, Cerbero, toglierò di mezzo dal mio cammino.”

6
Subito scese dal destriero alato,
e lo lasciò legato ad un piccolo arbusto:
si calò quindi nell’antro, ma prima prese con sé
il corno, ponendo ogni speranza di sopravvivenza in quello.
Non riuscì ad andare molto avanti, che subito gli diede fastidio
al naso ed agli occhi un fumo nero e spiacevole,
più difficile da sopportare che se fosse stato di pece e di zolfo:
Astolfo non cessa comunque di proseguire oltre.

7
Ma più Astolfo va avanti, più diviene denso
il fumo e la caligine, e ritiene
quindi di non poter più proseguire oltre;
e che sarà necessario ritornare indietro.
A quel punto, non riesce a capire cosa possa essere, vede qualcosa muoversi sulla volta della caverna, così come può muoversi
al vento il corpo morto di un impiccato,
dopo essere stato per molti giorni esposto alla pioggia ed al sole.

8
Così poca, quasi totalmente assente, era la luce
lungo quella strada piena di fumo e buia,
che il duca Astolfo non riesce a comprendere, ed a distinguere,
che cosa possa essere quella cosa che si muoveva in aria in quel modo;
e per poter avere maggiori informazioni, si appresta
a dargli uno o due colpi con la propria spada.
Ritiene infine che non debba essere altro che uno spirito;
poiché gli sembra di riuscire a colpire solo la nebbia.

9
Sentì allora qualcuno parlare con una voce triste:
“Deh, senza causare danni ad altri, scendi giù!
Mi molesta putroppo il nero fumo
che dal fuoco dell’inferno si spande in ogni luogo.”
Allora il duca, pieno di stupore, si arresta
e dice all’ombra: “Possa Dio togliere ogni forza
al denso fumo, così che non riesca più salire là dove tu ti trovi,
ma non ti dispiaccia che conosca la sua situazione.

10
Se vuoi che porti tue notizie
nel modo dei vivi, sono pronto a soddifarti.”
Rispose l’ombra: “Alla luce del giorno, bella e che dà vita,
mi sembra cosa buona poter tornare anche solo per fama,
tanto che mi strapperà a forza le parole
il grande desiderio che ho di ricevere tale dopo, di essere ricordata,
ed il mio nome e la mia situazione, chi sono, ti dirò,
anche se il parlare mi risulta faticoso e fastidioso.”

11
E cominciò quindi a raccontare: “Signore, il mio nome è Lidia,
figlia, di nobile stirpe, del re di Lidia,
dal sublime giudizio di Dio
condannata per l’eternità a stare qui in mezzo al fumo,
per essere stata nei confronti del mio fedele amante,
quando ancora ero in vita, ingrata e spiacevole.
Questa grotta è piena di altre, innumerevoli, anime,
poste qui a subire la mia stessa punizione per la stessa colpa.

12
C’è qui la crudele Anassarete, più in basso,
dove il fumo è più denso e la pena quindi maggiore.
Il suo corpo rimase al mondo convertito in pietra,
mentre l’anima venne qua giù, nell’Inferno, a patire la pena,
dopo che di vedere impiccato, per sua opera, il misero e triste
suo amante, potè sopportare senza commuoversi.
Qui vicino c’è Dafne, che si accorge ora di quanto
abbia sbagliato a fare tanto correre Apollo.

13
Sarebbe troppo lungo se delle infelici anime
di femmine ingrate, che si trovano in questa parte dell’Inferno,
io volessi ad una ad una raccontarti;
poiché sono tante da tendere all’infinito.
Più lungo ancora sarebbe parlarti degli uomini
ai quali l’ingratitudine ha recato danno,
e che vengono ora puniti in un luogo peggiore,
dove il fumo li acceca ed il fuoco li cuoce.

14
Perché le donne sono più facili e propense
nel credere alle cose, una maggiore punizione merita però
chi le inganna. Lo sano bene Teseo e Giasone
ed Enea, colui che mosse guerra nel Lazio all’antico regno Romano;
lo sa bene Ammone, che il proprio fratello Assalone spinse contro di sé,
con sanguinosa ira, per l’aver violentato la sorella Thamar;
ed altri ed altri ancora: in numero infinito,
che hanno abbandonato chi le mogli e chi i mariti.

15
Ma per raccontare più di me che degli altri,
e rendere più evidente l’errore che mi condusse poi qui,
tanto bella, ma altezzosa ancora di più, fui in vita,
tanto che non so se altra mai donna mi avesse eguagliata:
neppure saprei dirti chiaramente, tra questi due,
se prevalesse in me l’orgoglio oppure la bellezza;
sebbene la superbia o l’essere altezzosa, nacque
dalla bellezza che a tutti gli occhi piacque.

16
Vi era a quel  tempo in Tracia un cavaliere, Alceste,
ritenuto il migliore al mondo con le armi,
il quale, da più di testimone attendibile,
sentì tessere le lodi della mia particolare bellezza;
a tal punto che spontaneamente decise
di voler darmi in dono tutto il suo amore,
ritendendo di meritare, in nome del proprio valore,
che io tenessi come cosa cara il suo cuore.

17
Giunse in Lidia; e con un laccio più forte
rimase quindi legato, intrappolato, dopo che mi ebbe vista.
Con gli altri cavalieri si mise nella corte
di mio padre, nella quale accrebbe di molto la propria fama.
Il grande valore personale e gli svariati
atti di coraggio che mostrò, sarebbe lungo
a raccontarti, e le infinite ricompense che si sarebbe meritato
se avesse servito un uomo con maggiore gratitudine di mio padre.

18
Panfilia e Caria, ed anche il regno dei Cilici,
mio padre potè vincere in battaglia per opera di costui;
tanto che mai mio padre spinse l’esercito contro nemici
più di quanto questo cavaliere valoroso voleva.
Costui, ritenendo ora che i benefici portati
lo meritassero, un giorno con il re ebbe un colloquio privato
e gli chiese, quale premio per le numerose conquiste
generate dal suo aiuto, che io diventassi sua moglie.

19
Fu respinto dal re, che ambiva a fare maritare sua figlia
con un uomo di alta condizione sociale,
non con costui che, essendo solo un cavaliere,
non possedeva altro se non il proprio valore personale:
e mio padre, troppo abbandonato al semplice guadagno,
e anche all’avarizia, scuola per apprendere ogni vizio,
apprezza tanto le buone maniere o ammira le virtù personali,
quanto un asino può apprezzare ed ammirare il suono di una lira.

20
Alceste, il cavaliere di cui io ti parlo
(essendo questo il suo nome) vedendosi
respinto da cui più di ogni altro avrebbe dovuto mostrargli
gratitudine, chiede il permesso di partire;
e minaccia il re, allontanandosi, di farlo
pentire di non avergli dato in sposa la figlia.
Se ne andò quindi dal re di Armenia, antico rivale
del re di Lidia e suo principale nemico;

21
e tanto lo stimolò, lo istigò, da indurlo
a prendere le armi ed a muovere guerra contro mio padre.
Alceste, come merito per le sue illustri e famose gesta,
fu quindi fatto capitano di quelle squadre dell’esercito.
Per il re di Armenia tutte le altre cose cose
disse che avrebbe conquistato: solo il mio corpo elegante
e bello voleva come ricompensa
per il suo operato, una volta ottenuta la completa vittoria.

22
Io non sarei in grado di spiegare in modo chiaro il grave danno
che Alceste fece a mio padre in quella guerra.
Sconfigge quattro eserciti, ed in meno di un anno di guerra
lo riduce in condizioni tali da non lasciargli più in possesso alcuna terra,
ad eccezione di un castello, che ripidi pendii rendono
fortissimo; e là dentro il re si serra
con quelli della corte che più gli sono cari,
e con il tesoro che in breve vi potrebbe portar fuori da tale situazione-

23
In quel castello ci assediò Alceste; ed in non molto
tempo ci ridusse ad un tale stato di disperazione,
che mio padre avrebbe, con buon patto, accettato
che la moglie e la serva, ed anche me con loro, gli venissero lasciate
insieme alla metà del regno, se in questo modo avesse sperato
di poter essere risparmiato da ogni altro danno.
Di vedersi in breve tempo privato di quel poco che ancora gli restava
era ben certo, per morire poi come prigioniero.

24
Si appresta quindi a tentate, prima che ciò accada,
ogni rimedio che avesse potuto aver successo;
invia me, che ero causa di ogni male,
fuori dalla rocca, là dove Alceste si trovava.
Io vado d Alceste con l’intenzione
di cosegnarmi come prigioniera,
e di pregarlo affinché prenda la parte del regno
che più voleva, e tramuti quindi l’ira in pace.

25
Non appena Alceste apprende che io vado a trovarlo,
subito mi viene incontro pallido e tremante:
di un vinto e di un prigioniero, a guardarlo bene,
aveva l’aspetto piuttosto che di un vincitore.
Io, conoscendo che cosa lo faceva ardere, non mi rivolgo a lui
così come avevo prima meditato:
vista l’occasione che mi si presenta, prendo una nuova decisione,
più adeguata allo stato d’animo in cui lo trovo.

26
Comincio quindi a maledire l’amore che lui provava nei miei confronti,
ed a lamentarmi con forza della sua crudeltà,
del fatto che ingiustamente aveva oppresso mio padre,
e che aveva cercato di prendermi con la forza;
che mostrando più grazia nei miei confronti sarebbe riuscito
ad avermi di lì a pochi giorni, se solo avesse saputo mantenere
in modo deciso le buone maniere che aveva avuto inzialmente,
e che al re ed a tutti noi furono tanto gradite.

27
E sebbene, inizialmente, mio padre
gli aveva respinto l’onesta sua richiesta di matrimonio
(essendo per sua natura un poco scontroso,
non si piega mai alla prima richiesta),
non avrebbe dovuto diventare restio a servirlo con devozione
per questo rifiuto, e provare subito ira nei suoi confronti;
anzi, agendo sempre meglio, doveva essere sicuro
di giungere in breve tempo alla tanto desiderata ricompensa.

28
E se ancora mio padre restio nei suoi confronto
fosse rimasto, io l’avrei poi pregato tanto
che avrebbe comunque fatto del mio amante il mio sposo.
Se tuttavia l’avessi visto ancora ostinato nel suo rifiuto,
avrei fatto tale opera di nascosto,
ed Alceste si sarebbe potuto elogiare per l’avermi potuta avere.
Ma poiché a lui, ad Alceste, sembrò invece meglio tentare in altro modo,
ero ora ferma nella decisione di non amarlo mai.

29
E sebbene ero venuta da lui, mossa
da la pietà che provavo nei confronti di mio padre,
doveva essere certo che non avrebbe potuto godere a lungo
del piacere che contro la mia volontà gli davo;
perché avrei macchiato la terra con il mio sangue, mi sarei uccisa,
non appena al suo perverso desiderio avessi
con il mio corpo dato soddisfazione
in ciò che sarebbe stato del tutto contro la mia volontà.

30
Usai queste parole ed altre simili,
avendo capito quanto potere avevo nei suoi confronti;
e lo resi la persona più pentita, tanto che mai
si sarebbe potuto trovare un eremita più pentito di lui.
Mi cadde ai piedi, e mi supplicò intensamente
peché, con il coltello che si era tolto dal fianco
(e cercava in ogni modo di farmelo prendere),
mi vendicassi di quel suo grave errore.

31
Vedendolo in questa condizione, io intendo
approfittare sino in fondo di quella grande vittoria personale:
gli do speranza di poter essere ancora degno
di godere della mia persona,
se, ponendo rimedio al suo errore, l’antico regno
farà restituire a mio padre;
e contemporaneamente sarà disposto a rinconquistarmi
servendomi, amandomi, e mai più volendo agire per mezzo delle armi.

32
Alceste mi promise di agire come da me richiesto, e nella rocca
mi fece tornare illesa, così come a lui ero giunta,
senza nemmeno osare di baciarmi sulla bocca:
vedi dunque come gli tenni stretto il giogo intorno al collo;
vedi dunque come Amore l’abbia colpito per mezzo mio,
come non è necessario che scocchi altre frecce per colpirlo.
Andò il cavaliere dal re di Armenia, al quale l’antico regno
avrebbe dovuto andare in consegna stando ai patti:

33
e con i modi migliori che era in grado di usare,
lo prega affinché lasci a mio padre il regno,
le cui terre ha depredato e lasciato vuote,
e torni a godere la propria patria, l’antica Armenia.
Quel re, con entrambe le guance scaldate dall’ira,
disse ad Alceste che non ci pensasse nemmeno;
che non aveva intenzione di ritirarsi da quella guerra,
fintanto che mio padre era ancora in possesso di un palmo di terra.

34
E per il fatto che Alceste si stava esprimendo
alla pari di una vile donzella, avevano avuto un danno.
Il re non vuole perdere, per le preghiere di Alceste,
ciò che con tanta fatica aveva conquistato in un intero anno.
Alceste lo prega di nuovo, e poi si duole
del fatto che le preghiere non hanno effetto su di lui.
In ultimo si arrabbia e lo minaccia
di volere che lui faccia, per forza o per amore, ciò che lui gli chiede.

35
L’ira crebbe tanto che lo spinse
a passare dalle cattive parole ai peggiori fatti.
Alceste impugnò la spada contro il re,
fra mille cavalieri che si erano fatti avanti in suo aiuto,
e nonostante il loro intervento, lo uccise sul posto:
e quello stesso giorno sconfisse gli Armeni,
con l’aiuto dei cavalieri della Cilicia e della Tracia,
pagati da Alceste stesso, e di altri suoi seguaci.

35
Andò oltre quelle vittoria, a sue spese,
senza nessun spreco di denaro da parte di mio padre,
ed in meno di un mese ci rese tutto il regno.
Poi, per ricompensarci del grave danno,
oltre alle terre spoglie che ci diede, conquistò anche
in parte, e ponendo in parte un pesante tributo,
l’Armenia e la Capadocia, con noi confinanti,
e fece scorrerie per l’Ircania fino al confine del mare.

37
Invece di accoglierlo in trionfo, al suo ritorno
pensammo di ucciderlo.
Ci trattenemmo poi dall’intento, per non ricevere danno;
poiché lo vediamo troppo forte con gli amici che lo circondavano.
Fingo di amarlo, ed in più, di giorno in giorno,
gli do la speranza di poter divenire sua sposa;
ma prima, contro altri nostri nemici,
dico di volere che dia dimostrazione del suo valore.

38
A volte da solo, a volte con poca gente al seguito,
lo mando a compiere strane e pericolose imprese,
che avrebbero potuto causare la morte, facilmente, di mille cavalieri:
ma a lui invece riuscirono tutte bene;
perché tornò sempre vittorioso, e spesso dovette
combattere con persone orribili e mostruose,
contro i Giganti e contro i cannibali Lestrigoni,
che erano pericolosi per le nostre regioni.

39
Non lo fu mai dal fratellastro Euristeo, non fu mai
Ercole tanto messo alla prova neanche dalla matrigna Giunone
in Lerna, in Nemea, in Tracia, in Erimanto,
fino alle valli dell’Etolia, alle valli Numide,
sul Tevere, sul fiume Ebro ed in ogni altro luogo; quanto,
con infinite preghiere e con desiderio omicida,
fu sottoposto ad imprese colui che mi amava,
cercando sempre di togliermelo di torno.

40
Non potendo raggiungere l’intento di dargli la morte,
arrivo ad architettarne uno di eguale fine:
lo induco a trattare male tutti quelli che io senti
possano essere suoi amici, e faccio in modo che tutti lo odino.
Alceste, che provava contentezza
soltanto nell’ubbidirmi, senza prestare alcuna cura
era sempre disposto a menare le mani ad ogni mio cenno,
senza guardare nemmeno chi aveva davanti.

41
Dopo che mi resi conto, con questo aiuto,
di aver estinto ogni nemico di mio padre,
e di aver quindi conquistato Alceste, per mezzo di lui stesso,
poiché non aveva mantenuto, per fare a noi piacere, amico alcuno;
ciò che gli avevo con finto viso
nascosto fino ad allora, gli spiego ora in modo chiaro:
che un grande e mortale odio nutro nei suoi confronti,
e cerco solo, continuamente, che venga ucciso.

42
Considerando poi che se causassi personalmente la sua morte
sarei cadruta in pubblico disonore
(era cosa nota quanto io fossi in debito nei suoi confronti,
e sarei quindi sempre stata additata come crudele),
ritengo che avrei fatto abbastanza se gli avessi impedito
di presentarsi innanzi ai miei occhi.
Non volli più né vederlo né parlargli,
nessun suo messaggero ascoltai, nessuna sua lettera accettai.

43
Questa mia ingratitudine gli diede
tanta sofferenza che alla fine, sopraffatto dal dolore,
e dopo aver lungamente chiesto invano pietà,
cadde ammalato e ne rimase ucciso.
Come punizione richiesta per il mio peccato,
ora ho gli occhi lacrimosi ed il viso colorato
dal nero fumo: e così li avrò in eterno;
poiché nessuna redenzione è prevista all’Inferno.”

44
Dopo che l’infelice Lidia ha smesso di parlare,
il duca Astolfo procede oltre per vedere se può trovare altre anime:
ma il fumo, che era la punizione per i peccati
di ingratitudine verso gli amanti, diviene più denso davanti a lui,
tanto da non consentirgli più di procedere oltre;
anzi, è costretto a tornare indietro, anzi,
perché la vita non gli venga tolta
dal fumo, deve accelerare sempre più i propri passi.

45
Il rapido alternarsi dei piedi ha l’aspetto
di una corsa, e nondi chi passeggia o prosegue trottando.
Avanza tanto, risalendo lungo la ripida salita,
che vede alla fine il punto dove la grotta si apriva verso l’esterno;
e l’aria, prima piena di fumo e triste,
cominciava ad essere attraversata dalla luce del giorno.
Alla fine, con grande affanno e grave difficoltà respiratoria,
esce dall’antro e si lascia alle spalle il denso fumo.

46
E perché la via di uscita sia impedita
a quelle bestie, le Arpie, che hanno il ventre tanto ingordo,
raduna massi ed abbatte molti alberi
che si trovavano nei paraggi, alcuni di zenzero ed altri di pepe;
come gli è possibile, davanti all’apertura della grotta
costruisce con le proprie mani una barriera:
e gli viene tanto bene quella costruzione,
che le Aripe non riusciranno mai più a tornare libere all’aperto.

47
Il fumo nero prodotto dalla scura pece,
mentre Astolfo si trovava nella tetra caverna,
non macchiò soltanto, ed infettò, l’esterno del duca, corpo ed abiti,
ma entrò e penetrò anche sotto i panni;
così che alla ricerca di acqua fu spinto ad andare
per un bel pò di tempo; ed alla fine fuori da una pietra,
nella foresta, vide sgorgare una fonte d’acqua
nella quale potè lavarsi dalla testa ai piedi.

48
Salì poi in groppa al cavallo alato, l’ippogrifo, e si alzò in aria
per giungere fino alla cima di quel monte,
che si crede non essere lontano, nel punto più alto,
dal cerchio della luna.
Tanto è il desiderio che lo spinge a poter vedere con i propri occhi,
che si interessa solo del cielo e della terra non si cura ora più.
Sale sempre più in alto in cielo,
fino ad arrivare alla cima della montagna.

49
A zaffiri, rubini, oro, topazi e perle,
e diamanti ed altre pietre preziose di colore giallo,
potrebbero assomigliare i variopinti fiori che
il venticello aveva fatto nascere lungo i lieti pendii:
così verde le erbe che, potendole avere
giù sulla terra, avrebbero superato per bellezza gli smeraldi;
no beno belle erano le fronde degli alberi,
sempre ricche di frutti e di fiori.

50
Cantano fra i rami i leggiadri uccellini,
di colore azzurro, bianco, verde, rosso e giallo.
Mormoranti ruscelli e placidi laghi
superano per limpidezza i cristalli.
Un dolce venticello che sembra soffiare
sempre allo stesso modo e dalla sua dolcezza non sembra mai allontanarsi,
faceva ondeggiare l’aria circostante tanto
che il calore del giorno non poteva dare fastidio:

51
e quel venticello ai fiori, ai frutti ed alla verdura,
andava rubando i diversi profumi,
e di tutti ne faceva una mistura
con la quale nutriva di dolcezza l’aria.
In mezzo alla pianura sorgeva un palazzo
che sembra essere acceso da una viva fiamma:
tanto splendore e tanta luce tutt’intorno
irradiava, ben oltre ogni consuetudine umana.

52
Alstolfo verso quel palazzo,
il cui perimetro superava trenta miglia,
fa muovere il proprio destriero a passo lento, senza fretta,
ammirando, ora da una parte ed ora dall’altra, il bel paesaggio:
e giudica brutto e malvagio, in confronto a quello,
e che sia in antipatia al cielo ed alla natura,
questo fetido mondo che abitiamo noi:
tanto è invece quello dolce, chiaro ed allegro.

53
Non appena Astolfo è vicino, volando, a quel luminoso tetto,
rimane sbalordito per la meraviglia:
poiché il muro è interamente ricoperto di una gemma,
più lucida e rossa del rubino.
che opera stupenda, che abile architetto!
Quale altra costruzione nel nostro mondo le rassomiglia?
Taccia chiunque le sette meraviglie
del mondo è solito esaltare tanto.

54
Dal lucente vestibolo di quella
felice casa, si fa incontro al duca Astolfo un vecchio,
con indosso un mantello tanto rosso ed una gonnella tanto bianca,
che l’una potrebbe confrontarsi con il latte, l’altro con il minio.

Hai i capelli bianchi, e bianca anche la mascella,
ricoperta da una folta barba che scende lungo il petto;
ed ha un viso tanto venerabile,
da sembrare uno degli eletti del Paradiso.

55
Costui, con viso gioioso, al paladino,
sceso da cavallo in segno di riverenza,
disse: “Oh cavaliere, che per volere divino
sei salito fino al paradiso terrestre,
benché non sia questa la destinazione del tuo cammino,
né sia visto da te come l’oggetto del tuo desiderio;
credici comunque se ti dico che non senza una profonda ragione
sei tu giunto qui dall’emisfero boreale.

56
Per imparare come devi prestare aiuto
a re Carlo, e come la santa fede togliere dalla situazione di pericolo,
sei venuto da me per ricevere consiglio,
dopo un così lungo viaggio, senza averlo deciso consapevolmente.
Non al tuo sapere e neanche al tuo valore vorrei
che attribuissi il merito di essere giunto qui, o figlio;
poiché né il tuo corno magico, né il cavallo alato
sarebbe serviti a qualcosa, se Dio non ti avesse concesso di arrivare qui.

57
Ragioneremo poi insieme con maggiore tranquillità,
e ti dirò come dovrai comportarti:
ma prima vieni a ristorarti con noi;
che il lungo digiuno deve ormai esserti fastidioso.”
Il vecchio, continuando il suo discorso,
fece molto meravigliare il duca Astolfo
quando, rivelando il proprio nome, gli disse
di essere colui che aveva scritto il vangelo:

58
quel Giovanni a Gesù Cristo, il Redentore, tanto caro,
che tra i discepoli si sparse la voce
che non avrebbe terminato la propria vita con la morte;
così che fece sì che il figliolo di Dio
disse a Pietro: “Perchè comunque ti affanni,
se io voglio che stia ad aspettare la mia venuta così come è?”
Sebbene non disse: egli non deve morire,
è chiaro comunque che volle dire proprio così.

59
Lì in paradiso fu elevato, e trovò anche la comagnia di altri,
poichè prima di lui Enoch, il patriarca, era giunto con il proprio corpo;
ed erano entrambi insieme al grande profeta Elia,
a non avere ancora visto l’ultima sera, a non essere ancora morti;
e fuori dall’atmosfera pestilente e malvagia del mondo,
si godranno l’eterna primavera di quel paradiso terrestre,
fino a che le trombe degli angeli non segnaleranno
il giorno del Giudizio Universale.

60
Con gentile accoglienza, il cavaliere
fu fatto alloggiare dai santi in una stanza;
in una altra si provvide affinché al suo destriero
fosse data a sufficienza della buona biada.
Diedero a lui da mangiare alcuni frutti del paradiso,
di tale sapore, che a suo giudizio, senza scuse
non sono stati i due primissimi antenati, Adamo ed Eva,
se a causa di quei frutti furono così poco obbidienti alle regole divine.

61
Dopo che l’aventuroso duca ebbe
soddisfatto i bisogni della propria natura umana,
tanto con il cibo, quanto con il riposo,
avendo ricevuto proprio tutte le comodità;
al sorgere del nuovo giorno, nell’ora in cui Aurora lascia il vecchio sposo Titone,
che, nonostante l’età avanziata, non smise mai di piacerle,
si vide venire incontro, mentrè si alzava dal letto,
il discepolo, Giovanni, tanto amato teneramente da Dio

62
il quale lo prese per mano, e con lui discorse
di molte cose meritevoli del silenzio:
e poi disse: “Figliolo, tu forse non sai
che cosa stia accadendo in Francia, sebbene tu venga proprio da lì.
Sappi quindi che il vostro cavaliere Orlando, avendo deviato
dal giusto cammino le insegne di difensore della Chiesa a lui affidate,
è ora punito da Dio, che, quando viene offeso, si infiamma d’ira
di più contro chi di più ama.

63
Il vostro Orlando, al quale, alla nascita, diede
Dio, con immenso rischio, una immensa forza,
e gli concesse, fuori dalle usanze umane,
che nessun ferro avrebbe mai potuto ferirlo;
poiché a difesa della sua santa fede
l’ha voluto porre con questi poteri,
così come Sansone contro i Filistei
pose a difesa degli Ebrei:

64
al suo Signore il vostro Orlando ha dato in cambio
una ingiusta ricompensa per i tanti benefici ricevuti;
poiché quanto lo doveva avere in suo aiuto
il popolo fedele, il popolo cristiano, tanto ne è rimasto privo, è stato abbandonato a sé stesso.
Tanto l’aveva reso cieco l’amore peccaminoso
nei confronti di una donna pagana, da avere ormai tollerato
di divenire, in due e più occasioni, crudele e malvagio,
e sul punto di dare la morte al suo fedele cugino Rinaldo.

65
E per questo Dio fa sì che egli vaghi preso dalla follia,
e mostri nudi il ventre, il petto ed il proprio fianco;
e gli offusca e toglie tanto l’intelletto,
da non essere in grado di riconoscere gli altri, e nemmeno sé stesso.
Allo stesso modo si legge che Dio volle
punire anche Nabuccodonosor,
e che per sette anni lo mandò in giro completamente folle
al punto che, come fosse stato un bue, si nutriva di erba e di fineo.

66
Ma poichè molto minore è tuttavia stato il peccato del paladino,
rispetto a quello di Nabucco,
dal volere divino soli tre mesi
sono stati imposti come periodo per purificare questa colpa.
Non per un altro scopo, dopo un così lungo viaggiare,
ti ha concesso il Redentore di salire fino al Paradiso terrestre,
se non perché tu possa da noi apprendere il modo
per rendere ad Orlando il suo senno.

67
Dovrai in verità intraprendere un altro viaggio
in mia compagnia, ed abbandonare quindi completamente la terra.
Ti devo condurre sulla Luna,
che, tra tutti i pianeti, si muove in cielo più vicina alla terra,
perché la medicina che può
rendere saggio Orlando viene tenuta là sù.
Non appena la Luna questa notte sarà
giunta sopra di noi, ci metteremo sulla via per raggiungerla.”

68
Su questo e su altre cose fu abbondante
la conversazione dell’apostolo quel giorno.
Ma dopo che fu giunta la sera ed il sole si nascose nel mare,
e la Luna innalzò sopra di lorò il suo corno,
fu preparato un carro, che era impiegato
per andare scorrazzando nei dintorni di quel cielo:
un tempo quel carro nelle montagne di Giudea
aveva sottratto il profeta Elia dalla vista degli uomini mortali.

69
Quattro destrieri molto più rossi di una fiamma
il santo evangelista attaccò al giogo del carro;
e dopo essersi sistemato sul carro con Astolfo
ed aver preso il freno, li spinse al galoppo verso il cielo.
Il carro, ruotando, si alzò in aria,
e subito giunse in mezzo alla sfera del fuoco eterno;
il veccho fece miracolosamente in modo
che, mentre passavamo attraverso il fuoco, lo stesso non risultava ardente.

70
Attraversano tutta la sfera di fuoco
e quindi proseguono verso il regno della Luna.
Vedono quel luogo essere per la maggior parte
come un acciaio privo di qualunque macchia;
e lo trovano uguale, o poco meno, per dimensioni,
alla superficie complessiva del globo terrestre,
della terra di questo ultimo globo, il globo terrestre,
comprendendo anche il mare che la terra circonda e stringe.

71
Lì Astolfo rimase meravigliato due volte:
che visto da vicino quel luogo era tanto grande,
metre assomiglia invece ad un piccolo tondo
a noi che lo osserviamo da queste parti;
e che gli conveniva aguzzare lo sguardo,
se dalla Luna la terra ed il mare, che intorno ad essa si spande,
vuole distinguere; poiché, non avendo luce propria,
la loro immagine arriva poco lontana.

72
Ben altri fiumi, altri laghi, altre campagne
ci sono là sulla Luna, rispetto a quelli che ci sono qui tra noi;
ben altre pianure, altre valli, altre montagne
hanno a disposizione le città ed i castelli della Luna,
con case in confronto alle quali mai più grandi
potè vederne il paladino né prima di allora né dopo:
e ci sono anche vaste e solitarie selve,
dove le ninfe cacciano ad ogni ora le belve che vi abitano.

73
Il duca Astolfo non rimase ad esplorare tutto quel luogo;
poiché non era salito là per quello scopo.
Dal santo apostolo Giovanni fu condotto
in un valle stretta tra due montagne,
dove veniva miracolosamente raccolto
ciò che viene da noi perso, o per nonstra colpa,
o a causa del tempo o della Fortuna:
ciò che si perde qua sulla terra, là sulla Luna si raduna.

74
Non parlo solo di regni o di ricchezze,
su cui ha potere la mutevole ruota della Fortuna;
ma voglio anche dire di ciò che la Fortuna non
ha alcun potere di togliere o di dare,
Là si trova molta di quella fama che, come fosse un tarlo,
il tempo, con il suo lungo passare, qua sulla terra divora:
là sulla Luna stanno le infinite preghiere e promesse,
che vengono fatte a Dio da noi peccatori.

75
Le lacrime ed i sospiri degli amanti,
l’inutile tempo che si perde giocando,
ed il lungo ozio di uomini ignoranti,
i vani propositi che non hanno mai attuazione,
i desideri infruttuosi sono tanti
da ingombrare la maggior parte di quel luogo:
in conclusione, ciò che qua sulla terrà tu potresti perdere,
salendo là sù potrai ritrovarlo.

76
Passando il paladino attraverso quei mucchi di cose perse,
chiede alla propria guida ora di questo ed ora di quello.
Vide un monte fatto da gonfie vesciche,
dal cui interno sembravano provenire grida e gravi turbamenti;
seppe che erano gli antichi re,
sia degli Assiri che della Lidia,
sia dei Persiani che dei Greci, che un tempo furono
famosi, mentre ora quasi anche il loro nome è stato dimenticato.

77
Ami d’oro e di argento vede lì vicino
raccolti in grande quantità, erano questi quei doni
che con la speranza di guadagno si fanno
ai re, ai principi avidi ed ai protettori.
Vede lacci nascosti in ghirlande; chiede cosa siano,
e ascolta in risposta che sono tutte adulazioni.
Vengono raffigurati come cicale scoppiate per il troppo cantare,
i versi fatti per tessere le lodi di signori.

78
Di legami dorati e di catene ricoperte di gemme,
vede che hanno forma gli amori finiti male.
Vi erano artigli di aquile; e seppe che furono
l’autorità data dai signori ai loro ministri.
I mantici che riempivano i pendii tutto intorno a quella valle,
sono i favori, valatili come fumo, che i principi
danno per un tempo limitato ai loro preferiti,
e che poi vengono tolti, scompaiono, con il loro passare degli anni.

79
Rovine di città e di castelli
stavano in quel posto, in modo confusionario, insieme a grandi tesori.
Domanda Astolfo cosa siano, ed apprende che sono complotti, e quelle
congiure che così poco riescono a rimanere nascoste.
Vide serpenti con il volto di donzelle,
opera di falsari e di ladroni:
poi vide bottiglie di vetro, di vario genere, rotte,
che erano il risultato dei servizi resi dalle misere corti ai propri signori.

80
Vide una grande massa di minestre rovesciate,
e domanda al suo maestro che cosa ciò significhi.
Dice Giovanni: “E’ l’elemosina che alcuni lasciano
nel testamento, perché venga fatta copo la loro morte.”
Passa di fianco ad una grande cumulo di fiori di diverso tipo,
che aveva avuto un tempo un buon profumo ed ora invece puzzava tanto.
Questo era il dono (se è lecito chiamarlo così)
che Costantino fece al buon Silvestro.

81
Vide una grande abbondanza di trappole appiccicose fatte con il vischio,
che furono un tempo, oh donne, la vostra bellezza.
Sarebbe lungo se raccontassi in versi tutte
le cose che sulla Luna si mostrarono agli occhi di Astolfo;
poiché anche dopo mille e mille versi non riuscirei a terminare,
essendoci tutto ciò che ci può capire in vita:
soltanto la pazzia sulla Luna è presente nella giusta misura, né poca né troppa;
in quanto stà qua giù sulla terra senza mai allontanarsi.

82
Lì, su alcuni suoi giorni e su alcuni fatti che riguardavano lui,
e che egli aveva già dimenticato, rivolse la propria attenzione:
che se non ci fosse stato Giovanni a spiegargli le cose,
non avrebbe potuto Astolfo distinguerne le diverse forme.
Poi giunse dove stava ciò che a noi sembra sempre di avere a sufficienza,
tanto che mai si fecero voti a Dio per poterne avere di più;
sto parlando del senno: ve n’era lì tanto da formare un monte,
da solo in quantità molto superiore a tutte le altre cose finora raccontate.

83
Era come un liquido diluito e fluido,
destinato ad  evaporare, se non tenuto opportunamente chiuso in un recipiente;
e si poteva vedere in quella valle raccolto in varie ampolle,
quale più, quale meno capiente, adatte a quell’impiego.
La più grande di tutte era quella nella quale
era stato versato dentro il senno del folle cavaliere Orlando;
e venne riconosciuta in mezzo alle altre, in quanto
riportava al suo esterno la scritta: Senno d’Orlando.

84
Ed allo stesso modo anche le altre riportavano scritto
il nome di coloro ai quali il senno, in esse contenuto, era appartenuto.
Il duca Astolfo vide un ampolla contenente gran parte del proprio senno;
ma lo fecero meravigliare molto di più
le ampolle di molti che credeva non dovessero
essere privi nemmeno di un briciolo del proprio senno, dettero invece lì
evidenza del fatto di averne in realtà ancora poco;
essendone presente una grande quantità in quel luogo.

85
Alcuni lo perdono a causa dell’amare, altri a causa dell’onore,
altri nella ricerca di ricchezze, muovendosi per mare;
altri a causa delle speranze riposte nei propri signori,
altri stando dietro alle vane arti della magia;
altri per le gemme, altri per le opere di pittori,
ed altri per qualcosa d’altro che apprezzano più di ogni altra cosa.
Di filosofi e di astrologi
ed anche di poeti ne era stato raccolto molto di senno in quel luogo.

86
Astolfo prese il proprio senno; glielo concesse
l’apostolo Giovanni, scrittore dell’ultimo libro del Nuovo Testamento relativo all’Apocalisse.
Si portò semplicemente al naso l’ampolla nella quale era esso contenuto,
e sembra quindi che il senno fece ritorno al proprio posto:
e che Turpino ammetta, da quel momento in avanti,
che Astolfo visse per un lungo periodo come un uomo saggio;
ma fu un errore che fece successivamente quello
che una altra volta gli tolse ancora il senno.

87
L’ampolla più capiente e piena, nella quale c’era
il senno che avrebbe dovuto rendere saggio il conte,
prese Astolfo; e non era tanto leggera
quanto aveva stimato, vedendola ammucchiata insieme alle altre.
Prima che il paladino Astolfo dal cielo della luna
discenda alle sfere sottostanti, del fuoco e dell’aria,
fu condotto dal santo apostolo
in un palazzo a fianco del quale scorreva un fiume;

88
palazzo che aveva ogni sua stanza piena di batuffoli
di lino, di seta, di cotone, di lana,
tinti in vari colori, alcuni brutti ed alcuni belli.
Nel primo cortile una donna canuta, con la chioma bianca,
traeva un filo da tutti quei batuffoli e lo avvolgeva ad un aspo,
come vediamo, in estate, la donna di campagna
ricavare dai bozzoli dei bachi, precedentemente bagnati,
la seta che viene poi filata.

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Vi è chi, finito un batuffolo,
giunge a rimetterne un altro, e chi ne porta altri da un altro logo:
un’altra donna separa, tra tutte quelle matasse,
quelle belle da quelle brutte, che non vengono invece distinte dalla prima.
“Che lavoro viene fatto qui, che io non riesco a comprendere?”
chiede Astolfo a Giovanni; e gli risponde l’altro:
“Le donne vecchie sono le Parche, che con questi fili
tessono la vita di voi mortali.

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Quanto dura uno dei batuffoli, tanto dura,
non un momento in più, la vita umana ad esso associata.
Controllano questo posto sia la Morte che la Natura,
per sapere l’ora in cui un uomo dovrà morire.
La seconda Parca ha molta cura nello scegliere i filati più belli,
perchè verranno poi utilizzati per tessere l’ornamento
del Paradiso; e con i fili più brutti
si fanno invece severi legacci per i dannati.”

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I nomi di tutti i batuffoli che erano già stato messi
sull’aspo, e scelti per essere impiegati per i diversi lavori,
venivano impressi su piccole piastre,
alcune di ferro, altre d’argento o d’oro:
venivano poi accantonati a formare cumuli compatti,
di quei batuffoli alicuni, senza mai riposarsi,
ne portava via continuamente, senza farsi mai vedere stanco,
un vecchio, il Tempo, per poi ritornare sempre e prenderne ancora.

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Era quel vecchio tanto spedito e veloce,
che sembrava fosse nato per correre;
e da quel cumulo il lembo del proprio mantello
portava pieno delle piastre, sulle quali erano segnati i nomi dei proprietari.
Dove si recava e perché facesse quel lavoro
vi sarà raccontato nel prossimo canto,
se mostrerete di averne piacere
con quel benevolo ascolto che siete solito offrire.