Il personaggio dell’Innominato nel romanzo I Promessi Sposi

Il vero nome dell’Innominato è Francesco Bernardino Visconti, uno dei feudatari di Brignano Ghiaradadda, contro il quale l’allora governatore di Milano emise una grida indicandolo come capo di una folta schiera di delinquenti e condannandolo quindi all’esilio insieme al suo seguito di bravi. Bernardino Visconti era noto alle cronache come il conte del sagrato per la sua usanza di fare uccidere sul sagrato delle chiese, nei giorni festivi, coloro che non ubbidivano alle sue intimidazioni. Alessandro Manzoni evita questo nomignolo, preferendo avvolgere il personaggio in un atmosfera di mistero: lo chiama semplicemente Innominato.

Fonti storiche presentano Francesco Bernardino Visconti come un uomo estremamente crudele ma di indole cavalleresca, orgoglioso e geloso del primato ottenuto nel suo campo. Nel romanzo I Promessi Sposi, il ritratto fatto dell’Innominato esprime pienamente questa sua completa ed orgogliosa malvagità: [i]Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui.[/i]

Il personaggio non appare quindi mai come un semplice e volgare tiranno, che suscita sdegno e ripugnanza. La sua estrema malvagità fa assumere all’Innominato un aspetto regale e maestoso. Il sentimento predominante nei suoi confronti è quindi di timore e quasi di rispetto, per essere riuscito, seppur grazie alla forza ed alla violenza, a creare una propria legge e ad ottenere una propria libertà.

Quando l’Innominato fa la sua comparsa nel romanzo di Alessandro Manzoni, la crisi interiore è già cominciata. L’uomo accetta di fretta di soddisfare la richiesta di Don Rodrigo per non lasciare emergere i pentimenti e mostrarsi quindi debole. La vista e le parole di Lucia relative al perdono divino mettono però definitivamente in crisi l’uomo, che, dopo una notte insonne, durante la quale è stato anche vicino al suicidio, chiede udienza al cardinale Federigo Borromeo ed infine si converte, grazie anche alle parole del religioso.
La conversione non è però dettata tanto dalla paura per le punizioni successive al giudizio di Dio, quanto dal giudizio divino in sé. L’Innominato è quindi solo consapevole di non aver operato in rispetto della legge di Dio e questo lo terrorizza.

Solo in un animo simile a quello dell’Innominato, svincolato a ogni compromesso, incapace di mezze misure, una crisi interiore può portare ad una trasformazione integrale.
La conversione porta però solo ad un reindirizzamento dei suoi obiettivi, prima concentrati solo sul male e dopo solo sul bene. Nella sua nuova vita l’Innominato mantiene tutta la sua sicurezza ed il suo orgoglio, suscitando per questo la venerazione e l’ammirazione di tutti, ed ottenendo quindi una nuova e più viva libertà personale: Così quell’uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccoli a calpestarlo; messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti, e inchinato da molti.
Se prima della conversione il personaggio aveva il primato in crudeltà e non era quindi un malvagio qualunque, era il re dei malvagi, dopo la conversione la sua bontà è completa, non è un persona caritatevole qualunque, è un santo.