SPESSO IL MALE DI VIVERE di Eugenio Montale | Testo, parafrasi e commento

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Parafrasi:
Ho sperimentato spesso il dolore dell’esistenza:
era il ruscello che [come in un lamento] gorgoglia, perché il suo fluire è ostacolato,
era la foglia rinsecchita e bruciata dalla calura
era il cavallo crollato dalla fatica.

Non ho mai sperimentato il bene se non nella condizione
prodigiosa concessa da un distacco superiore:
era la statua nella silenziosa calma
pomeridiana, la nuvola e il falco che vola solitario in cielo.

Analisi:
La forma e lo stile. La lirica è divisa in due quartine di endecasillabi che mostrano un chiaro parallelismo con leggere variazioni: entrambe sono a rima incrociata (tranne l’ultimo verso che rima con il primo) con uno schema di assonanze che accentua il parallelismo; il primo verso di entrambe le quartine espone in modo sentenzioso un assunto astratto, seguito da tre immagini; al male del primo verso corrisponde il bene del quinto. Il linguaggio aspro ed essenziale, caratterizzato da suoni duri e dissonanti richiama in parte il Dante infernale e “petroso”. Le immagini, quali referenti reali di un concetto astratto, introducono la poetica degli oggetti tipica del primo Montale, che anticipa il “correlativo oggettivo”: al male, per esempio, corrispondono il rivo strozzato, la foglia / riarsa, il cavallo stramazzato

I temi. Spesso il male di vivere…, poesia inclusa nella raccolta Ossi di seppia, è uno degli incipit più famosi della letteratura italiana del Novecento per l’immediatezza con cui il tema portante della poesia viene esposto fin dal primo verso. L’esistenza contrassegnata dal dolore non è un tema nuovo alla poesia italiana, che vanta un precedente illustre in Giacomo Leopardi, in particolare in componimenti come L’ultimo canto di Saffo e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in cui il “male” è assolutizzato e individuato come il tratto distintivo della vita stessa. In questo caso a prevalere non è però il tono ragionativo, sebbene sia molto tipico di altre poesie di Montale e contraddistingua invece lo stile leopardiano, quanto un complesso procedere per immagini che in un crescendo individua il dolore in tutta la natura (il rivo strozzato, la foglia / riarsa, il cavallo stramazzato…). L’unica possibilità di sottrarsi alla legge del dolore è la divina Indifferenza, che ribalta parzialmente l’assunto leopardiano: qui l’indifferenza è un privilegio raro per l’uomo e indica il distacco, il disincanto che pone al riparo dalla sofferenza; in Leopardi è la crudele natura a essere indifferente alle sorti dell’uomo. Alcuni critici hanno fatto notare che il secondo verso, era il rivo strozzato che gorgoglia, riecheggia un passo del VII canto dell’Inferno, quello degli accidiosi, costretti a espiare le loro pene nella melma: “Quest’inno si gorgoglia nella strozza”, in riferimento al fatto che i dannati con i loro sospiri e la loro ira, che durante la vita hanno covato dentro di sé, fanno gorgogliare la melma in cui sono gettati.