Parafrasi canto 6 (VI) del Paradiso di Dante

Parafrasi del Canto VI del Paradiso – Cielo di Mercurio: le anime che si impegnarono in vita affinché l’onore e la fama sopravvivesse alla loro morte. Il canto è dedicato all’imperatore romano Giustiniano ed alla gloria dell’aquila imperiale. Il passo dà a Dante lo spunto per muovere critica alle guerre fratricide fiorentine. Il poeta ascolta anche la storia di Romeo di Villanova.

Leggi il testo del canto 6 (VI) del Paradiso di Dante


“Dopo che Costantino portò le insegne dell’impero da occidente
ad oriente, in direzione contraria al moto del sole e di quella
che avevano già seguito ai tempi in cui Enea prese in moglie Lavinia,

per più di cento anni l’aquila dell’impero
si stabilì all’estremità orientale dell’Europa,
vicino alle montagne dalle quali era a quel tempo partita;

ed all’ombra delle sue sacre penne,
essa governò il mondo di mano in mano,
fino a ché, così cambiando, giunse a me.

Sono stato imperatore, sono Giustiniano,
e per amore, ancora vivo, nei confronti dello Spirito Santo,
eliminai dalle leggi tutto ciò che era eccessivo e superfluo.

E prima che cominciassi a dedicarmi a questa opera,
credevo esistesse una sola natura di Cristo, non più d’una,
che Dio non fosse anche uomo, e mi compiacevo di una simile dottrina;

ma San Agapito, che fu
santo pontefice, verso la vera fede
mi indirizzò con le sue parole.

Io credetti ai suoi insegnamenti; e ciò che allora accettavo
sulla fiducia nella sua autorità, lo vedo ora così chiaramente
come tu puoi vedere che tra due affermazioni contrapposte, l’una sarà vera e l’altra falsa.

Non appena incominciai a seguire i principi della Chiesa,
a Dio piacque di stimolarmi, con la sua grazia, a compiere
quel grande lavoro, ed ad esso mi dedicai completamente;

affidai il comando dell’esercito al mio fedele generale Belisario,
le cui imprese trovarono un così alto favore del cielo,
che fu evidente che era arrivato per me il momento di occuparmi della pace.

Con queste parole si conclude la mia risposta alla prima parte
della tua domanda; ma l’argomento
mi costringere a proseguire aggiungendo ancora qualcosa,

così che tu possa vedere chiaramente quanto ingiustamente
agisca contro le insegne dell’impero
sia chi se ne appropria (i Ghibellini) sia chi vi si oppone (Guelfi).

Considera quanti uomini valorosi hanno reso l’impero
degno di rispetto; a cominciare dal tempo in cui Pallante morì
per aiutare Enea a porre le basi della potenza di Roma.

Sai quindi bene che l’insegna imperiale si insediò quindi ad Alba
Longa per oltre trecento anni, fino a che i tre fratelli Orazi
non combatterono contro i tre fratelli Curiazi per il suo possesso.

E sai bene ciò che fece dal ratto delle Sabine
al suicidio di Lucrezia sotto i sette suoi re,
combattendo e sconfiggendo i popoli circostanti.

Conosci anche le mirabili imprese compiute quando fu portato
dai nobili Romani contro i Galli di Breno, contro Pirro
e contro gli altri principati e le altre repubbliche;

dalle quali Torquato e Quinzio, chiamato Cincinnato per il suo
ciuffo arruffato, ed anche i Deci ed i Fabi,
ottenere quella fama che io onoro molto volentieri.

Esso, lo stendardo imperiale, atterrò l’orgoglio dei Cartaginesi
che al seguito di Annibale oltrepassarono
le Alpi Occidentali, dalle quali discende il Po.

Sotto di lui trionfarono ancora in giovane età
Scipione l’Africano e Pompeo; ed alle colline sotto le quali
tu sei nato, di Fiesole, risultò invece amaro, doloroso.

Successivamente, con l’avvicinarsi del tempo in cui a Dio
piacque che tutto il mondo fosse condotto all’ordine, alla serenità
delle sfere celesti, per la volontà del popolo romano l’insegna dell’aquila fu presa da Cesare.

Le imprese compiute dal fiume Varo fino al Reno,
le poterono vedere anche i fiumi Isère, Loira e Senna,
ad anche ogni valle in cui scorre il fiume Rodano.

Quello che fece dopo che Cesare uscì da Ravenna
ed attraversò il Rubicone, fu talmente rapido e di tale entità che
sarebbe impossibile stargli dietro con le parole o con gli scritti.

Verso la Spagna rivolse poi il suo esercito,
poi verso Durazzo, ed a Farsalò colpì Pompeo tanto duramente
che se ne sentirono gli echi fino alle rive del caldo Nilo.

Rivide quindi il porto di Antandro ed il fiume Simoenta, verso i
quali si era mosso, ed anche la tomba di Ettore; ed in seguito,
rimosso Tolomeo a favore di Cleopatra, si allontanò dall’Egitto.

Da lì scese come fosse un fulmine su Giuba;
da cui fece poi rotta verso occidente,
da dove sentiva provenire la voce dei sostenitori di Pompeo.

Le imprese che lo stendardo ottenne con il successivo
portatore, Ottaviano, erede di Cesare, fanno ancora lamentare
nel profondo inferno Bruto e Cassio, e furono dolorose per le città di Modena e Perugia.

Le piange ancora la triste Cleopatra
che, fuggendo dinnanzi ad esso, con il morso di un serpente
velenoso si dette una morte istantanea ed atroce.

Con Ottaviano corse e si espanse fino al mar Rosso;
con costui stabilì nel mondo una pace tale
che vennero serrate le porte del tempio di Giano.

Ma ciò che l’Aquila imperiale, in nome della quale ti sto parlando,
aveva compiuto prima e avrebbe compiuto poi
su tutta la terra, regno dei mortali, che sottostava ad essa

diventa poca cosa e di poca fama, se si guarda a ciò
che essa compì quando venne sostenuta dal terzo imperatore,
Tiberio, se si guarda con occhi liberi da pregiudizi e cuore puro;

poiché la giustizia divina, che ispira le mie parole,
concesse all’insegna imperiale, quando fu nelle sue mani,
la gloria di poter vendicare l’ira di Dio, di punire il peccato originale, la colpa di Adamo, con il sacrificio di Cristo.

Meravigliati dunque di quello che ti dirò adesso:
in seguito si recò a Gerusalemme insieme a Tito per vendicare
la vendetta che si era allora compiuta nei confronti del peccato originale.

E quando i Longobardi attaccarono
la Santa Chiesa, protetto dall’Aquila
Carlo Magno le venne in soccorso, sconfiggendoli.

A questo punto puoi meglio giudicare coloro che
ho prima accusato, i Guelfi ed i Ghibellini, ed anche i loro errori,
che sono la ragione di tutti i vostri mali attuali.

I Guelfi contrappongono all’insegna universale dell’Impero i gigli
d’oro degli Angioini, i Ghibellini invece se ne appropria,
rendendola simbolo di una fazione politica, così che è difficile dire chi dei due commetta l’errore più grave.

Compiano i Ghibellini le loro azioni
sotto un altro simbolo, perché ne è un cattivo seguace
colui che lo divide, divide l’Aquila, dalla giustizia;

e non si illuda di poterlo abbattere questo nuovo Carlo, II
d’Angiò, insieme ai suoi amici Guelfi, ma tema invece i suoi
artigli che domarono in passato sovrani ben più potenti di lui.

Già molte volte i figli hanno dovuto piangere, riparare
le colpe dei propri padri, e non ci si illuda che Dio si disposto
a cambiare la propria insegna con i gigli della casa di Francia!

Il cielo di questo piccolo pianeta, Mercurio, è adornato
dalle anime sante che in vita si sono impegnati affinché
l’onore e la fama sopravvivessero alla loro morte:

e quando i desideri umani sono rivolti verso questo intento,
deviando così dal sommo Bene, conseguenza inevitabile è che
lo slancio del vero Amore, che ci innalza al cielo, abbia meno vigore.

Ma in questa perfetta corrispondenza tra il premio ed il nostro
effettivo merito deriva una parte della nostra felicità, perché
non lo vediamo né superiore né inferiore alla giusta misura.

Con questa consapevolezza, la giustizia divina mitiga
tanto i nostri sentimenti che essi non possono
essere deviati verso nulla di diverso dalla felicità.

Così come voci di diversa qualità danno vita ad una musica
piacevole; allo stesso modo i diversi gradi di Beatitudine
presenti nel Paradiso producono una armonia concorde di sentimenti tra i diversi suoi cieli.

Ed all’interno di questo prezioso cielo
brilla la luce di Romeo, Romée de Villeneuve, la cui
considerevole e magnifica opera fu male giudicata.

Ma i signori della Provenza che lo perseguitarono non hanno
avuto poi da ridere; si vede quindi come percorra una strada
pericolosa chi reputa di avere ricevuto un danno dal bene compiuto da una altra persona.

Raimondo Berengario ebbe quattro figlie ed ognuna di esse
divenne regina, e questo grazie all’opera di
Romeo, che era straniero e di umili origini.

Ma in seguito le calunnie mosse contro Romeo spinsero
Raimondo a chiedere conto della sua amministrazione a questo
uomo giusto, che mostrò di aver ottenuto dodici da un dieci iniziale, di avere accresciuto il patrimonio del suo signore.

Partì da là povero ed ormai vecchio;
e se il mondo sapesse la forza d’animo che egli mostrò
nel vivere di elemosina,

lo loderebbe ancora di più di quanto già lo loda.”

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