Parafrasi canto 15 (XV) dell’Inferno di Dante

Parafrasi del Canto XV dell’Inferno – I violenti contro Dio ed in particolare contro la natura, figlia di Dio. Il poeta incontra il suo antico maestro Brunetto Latini, che gli predice il futuro esilio.

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Dante si trova nel IV Cerchio dell’Inferno, quello dei violenti, e precisamente nel suo Terzo Girone, quello dei violenti contro Dio:
– i bestemmiatori, distesi sulla sabbia infuocata sotto una pioggia di fuoco;
– i violenti contro la natura, figlia di Dio, o sodomiti, costretti a correre sotto la pioggia di fuoco;
– i violenti contro l’arte, figlia della natura, o usurai, seduti sotto la pioggia di fuoco.

Il poeta e la sua guida camminano lungo gli argini del fiume infernale Flagetone, che, insieme alla palude Stige ed al fiume Acheronte, ha origine dalle lacrime del Veglio di Creta; l’enorme statua (invenzione di Dante) che simboleggia tutto il genere umano che piange infelice per il proprio peccato originale.

I duri margini del fiume richiamano nella mente di Dante le dighe olandesi e padovane, esempi di lotta dell’uomo contro le forze della natura, e preparano quindi l’incontro con i sodomiti.
Le anime dannate fissano il poeta come, si legge, il sarto è solito fissare la cruna dell’ago per infilare il filo. Una di loro lo riconosce anche e lo ferma gridando il suo stupore ed afferrandogli confidenzialmente un lembo dell’abito. I versi del canto si tingono chiaramente di una benevole simpatia, perfetta introduzione all’incontro con Brunetto Latini.
Il viso bruciacchiato dello spirito non impedisce al poeta di riconoscere il suo vecchio maestro, che in modo molto umile chiede al poeta di poter proseguire il suo cammino un poco con lui. Dante risponde in modo altrettanto umile pregando l’amico di farlo, dice di essere anche disposto a fermarsi ed accenna infine a Virgilio, senza però dire che è ora lui il suo nuovo maestro. Brunello risponde all’invito dicendo di non potersi fermare senza pagarne le conseguenze ed i due inziano perciò a camminare fianco a fianco, pur mantenendosi su livelli diversi (Dante teme le bruciature).

Rispondendo alle domande del vecchio maestro, il poeta confida il suo smarrimento nella selva oscura e racconta quindi di essere stato salvato dal suo compagno. Dante accenna solo al suo viaggio, non dice di essere destinato al Paradiso e non cita nemmeno il nome di Virgilio, probabilmente con l’intenzione di non rattristare Brunello. Il vecchio maestro dal canto suo rimpiange di non aver potuto portare a termine la sua opera educatrice verso il discepolo, che tanto faceva ben sperare, e predice quindi le future pene del poeta. Firenze gli sarà prima nemica, come riconoscenza per il bene che Dante ha fatto per lei, per poi tornare a desiderarlo come alleato (conteso dalle fazioni guelfe) quando il poeta conseguirà l’immortalità grazie alle sue opere letterarie. Per bocca di Brunello, Dante si eleva quindi al di sopra delle fazione e delle loro rivalità, ponendosi come unico erede della verà romanità.
Dante ringrazia il vecchio maestro per gli insegnamenti ricevuti, gli promette di renderlo immortale nel suo poema, dice di segnarsi la sua nuova profezia, così da poter poi farsela spiegare da Beatrice, ed infine annuncia, con il consenso di Virgilio, di essere comunque pronto ad affrantore qualunque sorte avversa.

Negli ultimi versi del canto Brunello indica a Dante alcuni dei suoi compagni di pena, che in vita furono chierici o grandi letterati, gli affida poi la vita della sua fama ed infine saluta l’amico e torna correndo verso il suo gruppo di dannati.


Proseguiamo ora sopra uno dei due argini del Flagetonte;
Il vapore che il ruscello sprigiona fa da ombra agli argini,
salvando essi e l’acqua dal fuoco.

Erano simili agli argini eretti dai Fiamminghi tra Wissand e
Bruges, temendo che la furia del mare si avventi contro
di loro, per fare da schermo al mare, così da tenerlo lontano.

e quasi simili a quelli che i padovani erigono lungo il Brenta,
per proteggere le loro ville ed il loro castelli dalle inondazioni,
prima che la Carinzia, dove il fiume ha origine, senta il caldo della buona stagione:

quegli argini infernali era fatti allo stesso modo,
benché non fossero stati fatti né tanto alti né tanto massicci
dal loro architetto, chiunque egli fosse stato.

Ci eravamo già tanto allontanati dalla selva dei suicidi
che io non avrei più potuto vedere dove essa fosse,
anche se mi fossi voltato indietro,

quando incontrammo una schiera di anime
che venivano verso di noi lungo l’argine, e ciascuna
di loro ci guardava fisso come si è solito la sera

guardarsi l’un l’altro sotto la luna nuova;
ed aguzzavano lo sguardo verso di noi
come lo aguzza il vecchio sarto verso la cruna per infilare.

Mentre venivo adocchiato in questo modo da quella schiera,
fui riconosciuto da uno spirito, che mi afferrò
il lembo dell’abito e gridò: “Che sorpresa!”

Ed io, quando vidi che allungava il suo braccio verso di me,
fissai lo sguardo sulle sue sembianze tutte bruciacchiate,
così che il suo volto abbrustolito non impedì

alla mia mente di riconoscerlo;
piegando la mia mano verso la sua faccia,
risposi: “Siete proprio voi, qui, il famoso Brunetto Latini?!?”

E lui a me: “Figliolo mio, non ti dispiaccia
se il tuo vecchio maestro Brunetto Latini ritorna un poco
indietro insieme a te e lascia per un po’ la fila di dannati.”

Io dissi a lui: “Vi prego anzi di farlo, per quanto posso;
e se volete anche che mi fermi un poco con voi, lo farò
volentieri, purché me lo consenta costui, col quale vado.”

Disse allora Brunetto: “Oh figliolo, chiunque di questa schiera
si arresti anche per un solo momento, è condannato a
rimanere poi immobile per altri cent’anni, senza potersi proteggere con le mani dal fuoco quando gli cade addosso.

Perciò continua a camminare: io proseguirò al tuo fianco;
poi raggiungerò nuovamente la mia schiera,
che va piangendo la sua eterna pena.”

Io non osavo scendere dall’argine
per camminare a pari con lui; tenevo però la testa bassa
in segno di reverenza nei suoi confronti.

Cominciò lui a dire: “Che è la tua fortuna o quale il disegno
divino che ti conduce quaggiù prima del tuo ultimo giorno?
E chi è costui che ti fa da guida, mostrandoti la via?”

“Lassù nel mondo dei vivi, nella mia vita serena”,
risposi a lui, “mi sono smarrito in una valle,
prima di aver raggiunto la mia piena virilità.

Solo ieri mattina sono riuscito a lasciarmi alle spalle quella
valle: mi apparve allora questo spirito, mentre ero sul punto di
tornarci, e mi riconduce ora a casa lungo questo cammino.”

E Brunetto a me: “Se tu continuerai a seguire la tua stella
(Gemelli), non potrai non raggiungere il porto
della gloria immortale, stando a quanto vidi in te nella bella vita di lassù.

e se io non fossi morto così presto,
vedendo il cielo tanto benevolo nei tuoi confronti,
ti avrei dato molto volentieri il mio aiuto nella tua riuscita.

Ma quel popolo ingrato e maligno di Firenze,
che anticamente discese da Fiesole, e si dimostra ancora oggi
duro e ruvido come il monte, da cui si calò, ed i suoi sassi,

ti sarà nemico, come riconoscenza per il tuo far bene;
e ciò è naturale, perché tra i sorbi, dai frutti acerbi,
al fico non conviene far maturare i suoi dolci frutti.

Una antica proverbio chiama “ciechi” i fiorentini;
sono gente avara, invidiosa e superba:
levati di dosso ogni loro male costume.

La tua fortuna ti riserva tanto onore, che l’una e l’altra fazione
dei Guelfi desidererà ardentemente averti tra loro;
ma la tanto bramata erba, starà lontana da quei caproni.

Quelle bestie discese da Fiesole si nutrano di sé stesse,
si mangino tra loro, ma non osino toccare la pianta buona,
se ancora qualcuna riesce a germogliare nel loro letame,

ed in cui rivive il santo seme
di quei romani che rimasero dopo che
fu edificata Firenze, ora nido di tanta malvagità d’animo.”

“Se fosse stato esaudita la mia richiesta a Dio”,
risposi io a lui, “voi non sareste stato ancora
cacciato dal mondo dei vivi;

perché ho ancora fissa nella memoria, e mi addolora ora
vederla qui, la cara e buona immagine paterna
di voi, quando lassù nel mondo, di giorno in giorno,

mi insegnavate come rendere immortale la propria fama:
e quanto io sia riconoscente nei vostri confronti, mi conviene
testimoniarlo, lodandovi, fintanto che sarò in vita.

Mi annoto ciò che avete predetto riguardo alla mia vita,
e lo aggiungerò ad altre analoghe predizioni per farmelo
poi spiegare dalla donna, Beatrice, che saprà dirmi il loro vero senso, se riuscirò ad arrivare a lei.

Voglio solo che voi sappiate,
purché riesca a conservare integra la mia coscienza,
che sono pronto ad ogni rovescio della Fortuna.

Non è nuovo alle mie orecchie il prezzo di tali tristi presagi:
ma la ruota della Fortuna giri pure come le piace
ed il villano usi pure la sua zappa. Non me ne importa nulla!”

Il mio maestro allora voltò indietro il capo
dal lato destro e mi guardò fisso;
poi disse: “Fa bene chi ascolta le tue parole e se le annota!”

Non interrompo tuttavia il discorso iniziato
con Brunetto e gli domando chi sono,
tra i suoi compagni, quelli più famosi e di più alto grado.

Mi rispose: “Conviene che tu abbia notizie di alcuni di loro;
degli altri è sicuramente meglio non parlare,
perché non avrei tempo a sufficienza per dirti tutto.

Sappi quindi che tutti costoro furono chierici
e grandi letterati, persone di grande fama, che in vita
commisero lo stesso peccato di disonestà contro la natura.

In quella schiera disgraziata c’è il grammatico Prisciano
ed anche il giurista Francesco d’Accorso; e avresti potuto
anche vederci, se proprio desideravi vedere una tigna,

colui, Andrea dei Mozzi, che dal Papa, servo dei servi, fu
trasferito da Firenze a Vicenza, dove scorre il Bacchiglione, e
dove lasciò il proprio corpo con cui aveva abusato nei peccati.

Ti parlerei volentieri ancora; ma la mia compagnia ed il mio
discorso non possono prolungarsi oltre, dal momento che vedo
sollevarsi nuovo fumo nel sabbione.

Segno che sopraggiunge una nuova folla di dannati, con la quale non mi è permesso stare.
Ti raccomando il mio Tesoro, la mia fama,
grazie alla quale io ancora vivo in terra, e non ti chiedo altro.”

Poi si volse di corsa verso la sua schiera, e sembrò uno di
quelli che a Verona partecipano alla gara del drappo verde;
sembrò tra quei corridori

colui che alla fine vince, non colui che perde.

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