Parafrasi canto 25 (XXV) dell’Inferno di Dante

Parafrasi del Canto XXV dell’Inferno – Dante e Vigilio si trovano ancora nella settima bolgia dell’ottavo cerchio, tra i fraudolenti. Qui assistono alle orribili trasformazioni di Cianfa Donati e Agnolo Brunelleschi che si fondono in un mostro unico, ed ancora di Buoso Donati e Francesco Cavalcanti che cambiano forma da uomo a serpente e viceversa.

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Dopo aver finito di parlato il ladro alzò entrambe le mani
facendo il gesto delle fiche (pugno chiuso e pollice tra l’indice
e il medio) gridando: “Prendi, Dio, le rivolgo direttamente a te!”.

Da quel momento in poi i serpenti mi diventarono simpatico,
perchè uno di essi lo avvolse subito intorno al collo,
come a dire: “Non voglio che tu parli ancora”;

e un’altra si attorciglò alle sue braccia, legandolo e rilegandolo,
ponendosi più volte sul petto del dannato, cosicché
non potesse con le braccia dare uno scossone per liberarsi.

Ahi Pistoia, Pistoia, perchè non decidi
d’incenerirti così da non esistere più, poichè hai già superato
i tuoi fondatori, i sicari di Catilina, nelle cattive azioni?

Attraverso tutti i tenebrosi cerchi dell’inferno non ho incontrato
uno spirito tanto superbo contro Dio come quel dannato,
nemmeno Capaneo che cadde dalle mura di Tebe fu così superbo.

Vanni Fucci fuggì e non potè più dire una parola;
e intanto vidi un centauro avvicinarsi, tutto pieno di rabbia,
gridando: “Dov’è, dov’è quel dannato non ancora piegato dalla pena?”.

In tutta la Marenna toscana non credo ci siano tante bisce,
quante ne aveva quel centauro sulla schiena,
fino a dove cessa la natura di cavallo e inizia l’aspetto umano.

Sopra le spalle, dietro alla nuca,
si trovava un dragone con le ali dispiegate;
che sputava fuoco contro chiunque incontrasse sulla sua via.

Il mio maestro Virgilio mi disse: “Questo centauro è Caco,
il quale, nella grotta che si trova sotto il monte Aventino,
spesso fece un lago con il sangue delle sue vittime.

Non corre sulla riva del Flegetonte insieme ai centauri
suoi fratelli a causa dell’astuto furto che compì sottraendo
parte della mandria condotta da Ercole, quando la ebbe vicino;

furto a causa del quale egli cessò poi le sue azioni malvagie sotto
la mazza di Ercole, che forse gli diede cento colpi, ma furono
talmente forti, che forse egli non sentì nemmeno i primi dieci”.

Mentre stavamo così discutendo e Caco passava oltre, inseguendo Vanni
Fucci, altri tre spiriti vennero fin sotto a dove ci trovavamo,
ma né io né Virgilio ci aggorgemmo subito della loro presenza,

se non nel momento in cui gridarono: “Chi siete voi?”
cosicché la nostra conversazione cessò,
e concetrammo tutta la nostra attenzione su di loro.

Io non li conoscevo; ma accadde allora,
come può capitare che accadda a volte per caso,
che l’uno dovette chiamare l’altro per nome,

dicendo: “Ciafa dove sarà rimasto?”: perciò io,
affinchè il duca prestasse loro attenzione, mi misi l’indice
sulla bocca, dal mento al naso, per farlo stare zitto.

Se tu ora, lettore, stenti a credere in quello che io ora
sto per scrivere, non ci sarà certo da sorprendersi, perchè pure io
che lo vidi con i miei occhi, faccio fatica a ritenerlo vero.

Mentre io tenevo il mio sguardo bene concentrato sui tre dannati,
un serpente con sei zampe che si lancia all’improvviso
su uni dei tre dannati, e gli avvinghia tutto addosso.

Con le zampe di mezzo gli circondò la pancia,
con quelle anteriori gli afferrò le braccia;
poi gli addentò entrambe le guance;

poi distese le zampe posteriori in mezzo alle cosce,
e tra esse mise la coda che
ritorse poi su lungo i reni del dannato.

Non ci fu mai una edera così tanto avvinghiata
ad un albero come quell’orribile animale tutto attorcigliato
con le sue membra intorno a quelle di quell’infelice.

Poi si fusero insieme come fossero fatti di cera calda
e mischiarono quindi anche il loro colore, tanto ché
né l’uomo né il serpente sembravano essere più quelli di prima,

come accade alla carta quando la si mette davanti alla fiamma,
che va prendendo un colore bruno che non è comunque ancora nero,ù
mentre il bianco va via via scomparendo.

Gli altri due dannati li stavano a guardare e gridavano
entrambi: “Ohimè, Agnello, come stai cambiando! Vedi come ormai
non sei nè uomo né serpente e nemmeno uomo e serpente”.

Le due teste erano già divenute una sola, quando,
nell’unica faccia, apparvero due figure mischiate tra loro,
quella d’umana e quella di serpente, ma entrambe irriconoscibili.

Si fecero due braccia dalle quattro iniziali;
le cosce, le gambe, il ventre e il busto
divennero delle membra mostruose, mai viste prima.

Ogni aspetto originale era stato cancellato: quella figura
deforme non assomigliava più né all’uomo né al serpente; e in
questa sua nuova forma se ne andò infine a passo lento, instabile.

Come il rammarro sotto la l’opprimente caldo
dei giorni di afa, passando da una siepe all’altra,
sembra un lampo quando attraversa la strada, tanto è veloce,

allo stesso modo sembrava procedere, venendo verso il ventre
degli altri due, un serpentello fiammeggiante (Francesco Cavalcanti),
di color bluastro e nero come un grano di pepe;

e in quella parte, l’ombelico, dalla quale riceviamo il nostro
primo nutrimento quando siamo nel ventre materno, trafisse uno di
loro; e poi cadde a terra davanti al dannato che aveva trafitto.

Il ferito (Buoso Donati) stette a guardarlo ma non disse nulla;
anzi, con i piedi immobili, sbadigliava
come se avesse sonno o gli stesse venendo la febbre.

Lui guardava il serpente, e il serpente fissava lui;
l’uno dalla ferita, e l’altro dalla bocca
emettevano un fumo intenso, e i due flussi si scontravano.

Taccia Lucano là dove scrive
delle sorti del povero Sabello e di Nassidio,
e stia anzi ora a sentire quello che ora parte dall’arco del mio dire.

Taccia anche Ovidio riguardo a Cadmo e Aretusa;
perchè se lui muta Cadmo in serpente e Aretusa in fonte
nella sua poesia, io non lo invidio affatto la sua arte;

poiché mai arrivò a mutare due nature così diverse, come
quella umana e quella del serpente, una nell’altra, così che entrambe
le forme fossero disposte a scambiarsi la propria materia.

Insieme i due si risposero l’un l’altro con tali leggi,
che mentre il serpente divideva la coda come una forca,
il ferito stringeva i piedi a formare un unico membro.

Le gambe e più su le sue stesse cosce
si saldarono insieme tra loro tanto che in poco della giuntura
non rimase più alcun segno visibile.

La coda aperta del serpente prendeva invece la forma delle gambe,
che andavano scomparendo nell’uomo, e la sua pelle si faceva più molle,
mentre quella dell’uomo diventava al contrario più dura e squamosa.

Vidi poi che le braccia dell’uomo rientravano nel corpo dalle ascelle,
mentre le zampe anteriori del serpente, che erano corte,
si allungavano tanto quanto le braccia dell’uomo si accorciavano.

Poi le zampe posteriori, attorcigliandosi e fondendosi
diventarono il membro (il pene) che l’uomo pudicamente cela,
e l’altro misero dannato spingeva fuori dal suo due nuovi arti.

Questo succedeva mentre il fumo avvolgeva l’uno e l’altro
in un colore nuovo, e generava peli sulla pelle del serpente
facendo nello stesso tempo perdere all’uomo,

quello che prima era serpente si alzò e l’altro cadde a terra,
senza smettere però mai di guardarsi fissi negli occhi,
sotto i quali ciascuno di loro andava cambiando faccia.

Quello che era in piedi, accorciò il muso da serpente verso
le tempie, e dalla materia in più che rimase si formarono
le orecchie, che sporsero dalle gote che prima ne erano prive:

dalla materia che non passo indietro e che era presente
in abbondanza, si formarono quindi il naso e si ingrossarono
le labbra nella giusta misura, tanto quanto conveniva.

Quello che giaceva a terra, allungò il muso all’infuori,
e ritirò le orecchie dentro la testa
come è solita fare la lumaca con le sue corna;

e la lingua, che prima aveva unita e capace a parlare,
si divise e divenne biforcuta, mentre quella dellaltro, prima divisa,
si saldò in unico pezzo; poi il fumo cessò di uscire dai loro corpi.

L’anima che si era tramutata in bestia,
fuggì via per la valle sibilando,
mentre l’altro le sputò dietro e riprese a parlare.

Quindi gli voltò le spalle appena riacquistate,
e disse all’altro: “Io voglio che Buoso corra,
come ho fatto io, a carponi, per questo sentiero”.

Così io vidi le anime dannate della settima bolgia mutare
e trasformarsi; e qui la novità della materia trattata
mi valga da scusa se la mia arte ha generato un poco di confusione.

E sebbene i miei occhi fossero un pò confusi
per quanto appena visto, e l’animo mio fosse smarrito,
i due dannati non mi poterono sfuggire alla vista,

così che io riuscii a riconoscere bene Puccio Sciancato;
che era l’unico, dei tre compagni
giunti prima presso di noi, che non era stato trasformato:

l’altro era Francesco Guercio dei Cavalcanti, quello la cui morte tu, Gaville, piangi.

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