Parafrasi canto 24 (XXIV) dell’Inferno di Dante

Parafrasi del Canto XXIV dell’Inferno – Nella settima bolgia Dante e Virgilio trovano i fraudolenti che sono costretti a correre tra serpenti e ad essere trasformati, ad un loro morso, in cenere per poi tornare persone. Incontrano Vanni Fucci che confessa loro di aver rubato nella sacrestia di San Giacomo di Pistoia e predice a Dante la prossima sconfitta dei Bianchi.

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In quel periodo dell’anno appena cominciato (fine di Gennaio)
in cui il sole rinforza i suoi raggi entrando nel segno dell’Acquario
e le notti durano solo la metà del giorno naturale,

quando la brina, formandosi sulla terra, copia
l’immagine della sua bianca sorella, la neve, ma la tempra
della sua penna dura poco, sciogliendosi subito al calore del Sole;

l’umile abitante di villaggio, a cui manca il foraggio per gli animali,
si alza, e guarda, e vede che la campagna è tutta bianca; perciò si
lascia cadere le braccia sui fianchi scoraggiato (credendo sia neve)

ritorna a casa, e si aggira qua e là lamentandosi,
come chi si trova in miseria e non sa che fare; ma poi
riguarda la campagna, e (sciolta la brina) si riempe di speranza,

vendendo che il mondo ha cambiato faccia
in poco tempo, e preso quindi il suo bastone,
porta fuori le pecorelle spingendole a pascolare.

Allo stesso modo il mio maestro mi fece rimanere sbigottito
quando lo vidi tanto turbato in fronte per qualcosa,
e subito, rapidamente al problema che lo turbava giunse la soluzione;

infatti, non appenna giungemmo al ponte franato, Virgilio
si rivolse a me con quell’espressione dolce che gli vidi quando,
ai piedi del colle, della selva, lo incontrai per la prima volta.

Aprì le braccia, dopo aver riflettuto e
aver preso una decisione, avendo guardato prima bene
i resti franati del ponte, e mi strinse alla vita.

E come chi lavorano e intanto valuta, che sembra sempre
che prima di procedere debba pensare bene a cosa fare,
così pure Virgilio, sollevandomi verso la cima

di una sporgenza, cercava subito un’altra protuberanza
e mi diceva: “Aggrappati poi sopra quella;
ma prima prova a vedere se riesce a reggerti”.

Non era certo quella via adatta alla gente che indossa la cappa
degli ipocriti, perchè già noi, anche se lui leggero e io sospinto da lui,
riuscimmo a salire a fatica di sporgenza in sporgenza;

e se non fosse stato che da quell’argine il pendio
era più corto rispetto a quell’altro da cui eravamo scesi, non so
cosa avrebbe fatto Virgilio, ma io mi sarei dato di certo per vinto.

Ma siccome Malebolge discende e pende tutta
verso l’apertura del bassissimo pozzo centrale,
la forma di ciascuna bolgia è fatta in modo che

la sua riva esterna sia più alta e quella interna più bassa:
continuando a salire, raggiunsimo infine il bordo della settima bolgia
dove spiccava l’ultima pietra del ponte franato.

Il fiato mi era stato talmente spremuto dai polmoni
per arrivare lassù, che io non potevo proprio andare oltre,
anzi, appena vi giunsi, mi misi subito a sedere sulla prima roccia.

“Conviente che tu ti riprenda subito” mi disse Virgilio
vedendomi seduto; “perchè restando seduto su una piuma,
o disteso sotto le coperte, non raggiungerai mai la fama;

senza la quale chi consuma la sua vita (senza ottenerla),
non lascia nessuna orma, nessun segno di sè sulla terra,
come il fumo che svanisce nell’aria e la schiuma nell’acqua.

Perciò alzati in piedi: vinci l’affanno facendoti forza
con quel tuo animo coraggioso che può vincere qualsiasi battaglia,
se non si lascia abbattere dalla pesantezza del suo corpo.

Ti manca ancora da salire la scala più lunga, quella fino al Purgatorio;
non basta essersi allontanati da costoro, dagli ipocriti: se tu
mi hai capito, fa allora sì che ti servano d’aiuto le mie parole”.

Allora mi alzai, mostrando di aver più fiato
di quanto in realtà io me ne sentissi e dissi:
“Rirpendi il cammino, che io mi sento in forza e senza paura”.

Prendemmo dunque la via sù per per il pendio che era roccioso,
stretto e poco agevole, e ancora più ripido di quello di prima,
dello scoglio che sovrasta come fosse un ponte le bolgie.

Continuavo a parlare mentre camminavo, per non sembrare fiacco;
quando, sentendomi, una voce uscì dall’altra bolgia,
dando forma a parole a me incomprensibili.

Non so cosa disse, anche se ero oramai giunto sul dosso
del ponte ad arco che passa sopra la bolgia:
ma chi parlava sembrava stesse correndo.

Io guardavo fisso verso il basso, ma anche guardando attentamente
i miei occhi non potevano vedere il fondo per quanto era scuro;
perciò dissi: “Maestro, fai in modo di arrivare

all’altro argine che cinge la bolgia e scendiamo dal muro;
perchè da qui io sento parlare ma non capisco quello che dicono,
ed allo stesso modo vedo ma non riesco a distinguere nulla”.

Virgilio mi rispose: “Non posso darti nessun altra risposta
se non accontentarti subito; perchè ad una richesta ragionevole
deve subito seguire una azione, per assecondarla, senza aggiungere altro”.

Dalla testata del ponte, scendemmo
verso il punto in cui questo si congiunge con l’ottavo argine,
ed in questo modo si svelò ai miei occhi la bolgia;

e vi potei vedere un terribile ammasso
di serpenti, di una varietà così orribili che al solo
ricordarli ancora adesso mi si rimescola il sangue.

La Libia non si può più vantare delle sue spiagge;
perchè anche se produce chelidri, iaculi e faree
e cencri e anfisibene, svariate specie di serpi,

non può dire di avere mai avuto serpenti così pestiferi e velenosi
nemmeno mettendosi insieme a tutta l’Etiopia ed a tutte
le terre che si trovano sopra al Mar Rosso, a tutto il deserto arabico.

In mezzo a questa gran quantità di serpenti feroci correva
della gente nuda tutta spaventata, senza la speranza di poter
trovare un rifugio o la pietra elitropia, che dà invisibilità:

avevano le mani legate dietro la schieda con dei serpenti;
le serpi ficcavano la coda e la testa tra le mani ed i reni dei dannati,
di qua e di là, ed si annodavano poi sul dorso.

Improvvisamente un dannato che si trovava dalla nostra parte,
fu assalito da un serpente e trafitto
là dove il collo si unisce alle spalle.

Mai fu scritta nè una “o” nè una “i” tanto velocemente,
quanto ci impiegò quel disgraziato a prendere fuoco e bruciare,
tanto che divenne tutto cenere mentre cascava al suolo;

e dopo che fu così ridotto a cenere a terra,
la sua polvere si raccolse da sola e nello stesso istante
ritornò di colpo ad essere la medesa figura di prima:

così come i grandi saggi del passato dichiarano
che la Fenice muore per poi subito rinascere,
quando si avvicina ai cinquecento anni di vita:

lei che quando è in vita non si nutre nè di biada nè di erba,
ma solo di lacrime d’incenso e d’amomo,
ed il suo drappo funeraria sono il nardo e la mirra.

Ed al modo di chi cade, e non sa come sia accaduto,
se a causa di un demone che lo ha strattonato in terra,
o per una altro tipo ostacolo che lega e non lo lascia stare in piedi,

che quando si rialza, si guarda intorno
tutto smarrito a causa della grande angoscia
che ha provato, e guardandosi intorno sospira;

allo stesso modo fece il peccatore quando si rialzò.
Oh quant’è sevara la potenza di Dio,
che per punire i peccatori sferra tali colpi!

La mia guida Virgilio gli domandò chi dunque egli fosse;
ed egli rispose: “Io sono piovuto dalla Toscana,
non molto tempo fa, per finire in questa bolgia feroce.

Mi piacque la vita bestiale e non quella umana,
essendo io un bastardo; io sono Vanni Fucci
detto Bestia, e Pistoia fu la tana degna della mia esistenza”.

E io dissi a Virgilio: “Digli di non scappare,
e chiedigli quale colpa lo ha spinto quaggiù; perchè io
l’ho conosciuto come uomo sanguinario e litigioso, non come ladro”.

E il peccatore che aveva capito le mie parole, non finse
di non aver udito, ma si rivolse a me tutta la sua attenzione
ed anche il volto, che si colorò di rosso per la triste vergogna;

poi mi disse: “Mi dispiace di più che tu mi abbia incontrato
qui nella miseria in cui mi vedi,
piuttosto che non la stessa morte con cui fui tolto alla vita.

Io non posso negarti quanto tu mi chiedi: io sono stato
sistemato in questa bolgia dell’inferno perchè io fui
derubai dei bei arredi la Sagrestia di San Giacomo a Pistoia,

delitto la cui colpa fu però assegnata falsamente ad altri.
Ma affinchè tu non possa godere per avermi visto quaggiù,
se mai uscirai da questi luoghi bui,

apri bene le orecchie alla mia predizione, e ascolta:
prima Pistoia vedrà cacciati da sè i Neri: ma poi Firenze
sostituirà nuovamente i Banchi con i Neri, cambiando governo e leggi.

Per opera di Marte, dalla Valle di Magra
soffierà un vento con nuvole scure;
e si abbatterà una tempesta impetuosa e terribile

sopra il territorio di Pistoia, dove si combatterà duramente;
il vento violento spazzerà poi via la foschia che lo avvolge
con una forza tale che ogni Bianco ne resterà ferito.

E questo te l’ho predetto così che tu te ne possa dolere!”.

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